Appendice «La Rassegna della letteratura italiana» Schede alfieriane (1953-1989)

Direttore della «Rassegna della letteratura italiana» dal 1953 al 1992, Binni, oltre a pubblicarvi saggi e recensioni anche di argomento alfieriano, presenti in questa edizione, vi tiene stabilmente la rubrica «Settecento» di segnalazioni bibliografiche; raccogliamo in questa appendice un’ampia scelta delle “schede” alfieriane dal 1953 al 1989, puntuale ricognizione dello stato degli studi alfieriani nell’arco di un quarantennio.

SCHEDE

Vittorio Alfieri, Tragedie, edizione critica, a cura di Carmine Jannaco; I, Filippo; II, Polinice; III, Antigone, Asti, «Casa d’Alfieri», 1952-53, pp. LXVIII-456, 362, 295.

Con questi tre volumi, usciti fra il marzo del ’52 e l’agosto del ’53, ha avuto inizio la pubblicazione della nuova edizione critica delle tragedie alfieriane, che costituisce il centro della superba edizione intrapresa dal «Centro di studi alfieriani», sotto l’impulso prima di C. Calcaterra ed ora del nuovo presidente, L. Fassò (oltre questi, tre vol. della Vita, a cura di L. Fassò, e recensiti nel n. 1-2 della Rassegna; ed ora si annunciano imminenti le Rime, a cura di F. Maggini, le Commedie a cura di F. Forti, e il IV vol. delle Tragedie, Virginia, a cura di C. Jannaco). Questa nuova edizione rappresenta davvero un contributo di grande importanza per gli studi alfieriani proprio in quanto al testo alfieriano definitivo (in sé e per sé di agevole pubblicazione perché autorizzato dallo stesso autore e da lui curato scrupolosamente nella edizione parigina del 1787-89 e già in condizioni eccellenti nella edizione critica laterziana a cura di N. Bruscoli, Bari, 1946) aggiunge le redazioni inedite della «idea» e dalla stesura in prosa (in francese e in italiano per le prime due tragedie) e le successive versificazioni precedenti il testo definitivo (tre per il Filippo, due per Polinice e Antigone), riportando poi a piè di pagina delle versificazioni intermedie le varianti successive e persino le correzioni suggerite da altri e riportate dall’Alfieri fra le proprie varianti. Non occorrerà insistere troppo – tanto è chiara – sulla grande utilità di una simile edizione per quello studio della formazione delle singole tragedie e della poesia alfieriana in genere, tanto piú importante quanto piú ben condotto criticamente in funzione di un approfondimento del complesso mondo poetico (ispirazione ed estrinsecazione stilistica) dell’Alfieri piú che per esangui esercizi non ricondotti al centro dell’interesse storico-estetico di quella grande poesia.

E senza neppure accennare qui ad un lavoro tanto impegnativo, si pensi, ad esempio, a quanto ci possa dire sullo svilupparsi e approfondirsi della poesia alfieriana, nella sua complessa unità, il dinamico confronto dei passaggi nel Filippo o nel Polinice attraverso l’idea, le stesure francesi e italiane, le tre versificazioni intermedie e il testo definitivo, nell’affermarsi non solo di una espressione sempre piú coerente e sicura anche linguisticamente, ma di una precisazione sempre piú intensa, concentrata e intimamente potente del tema poetico nella sua concreta esistenza, in un lavoro di cui ci sembra debba essere sempre meglio indicato, entro l’accanito lavoro di revisione e di assestamento stilistico, anche l’impeto interamente poetico ed essenziale che torna in queste fasi di versificazioni a portare accentuazioni piú profonde ed assolute di quelle della stesura iniziale. Il distacco maggiore delle versificazioni è nutrito di approfondimenti dei personaggi e del tema lirico centrale che non si ridurrebbero mai ad un semplice lavoro lucido e calmo di perfezionamento formale da calligrafo stilista. Il testo delle tragedie è preceduto da una introduzione generale (nel I vol.), che si divide in una esposizione cronologica del lavoro del tragico e delle varie redazioni delle tragedie, e in una parte piú importante di descrizione dei manoscritti, delle stampe con correzioni autografe, e, infine, in una esposizione delle condizioni della redazione definitiva e dei criteri adottati dal curatore in questa edizione critica (e per questa parte si rimanda al piú lungo studio Per l’edizione critica delle «Tragedie» in Studi sulle tragedie dell’Alfieri, di cui vedi segnalazione qui di seguito). Ed è qui (oltre che nelle note alle singole tragedie) che si può misurare lo scrupolo estremo dello J., che mentre ci assicura della assoluta attendibilità di questo lavoro editoriale anche nei minimi particolari, può a volte perfino sfiorare – per amore di precisione e di particolareggiata chiarezza – il rischio di una certa complicatezza, che richiederà certo un lettore altrettanto scrupoloso, e attentissimo nell’attuare i consigli minuti di lettura delle varianti, e per orientarsi fra segni e caratteri grafici distintivi (come ad es. la differenziazione dei sei puntini ad indicare, nelle versificazioni intermedie, dei versi lasciati incerti, dai quattro puntini per indicare sospensione e ammirazione). Ma è ben chiaro quanto fosse di difficile attuazione e a quale sottigliezza di accorgimenti tipografici dovesse per forza condurre la lodevolissima volontà di riprodurre nella maniera piú esatta un materiale cosí abbondante e di rispettare al massimo la volontà e le esitazioni dell’autore, i suoi cambiamenti, le sue discussioni con se stesso e con altri. Utilissimo sarà anche il volume di appendice che lo J. promette a raccogliere, oltre a varie note in gran parte inedite e prose critiche dell’autore sulle tragedie, anche le piú importanti osservazioni e critiche dei contemporanei.

«La Rassegna della letteratura italiana», a. 57°, serie VII, n. 4, Genova, ottobre-dicembre 1953

Alessandro Pellegrini, Alfieri, «Studi Teatrali», 1953, 6, pp.119-145.

Partendo da un’immagine «tragica» del poeta nell’ultimo periodo della sua vita, dopo il compimento della sua opera poetica, il P. ricostruisce rapidamente lo svolgimento della personalità alfieriana intorno al nucleo della sua anima malinconica e solitaria, chiusa alla storia e al mondo esterno, senza speranza e con un anelito a superare l’ambito umano che concluderebbe «ad una dolorosa rinuncia», ma anche all’affermazione, nella morte, del suo virile coraggio che «non cercò e non volle conforto». Nell’aristocratico, esule dalla propria società e ribelle alle norme tradizionali, il P. vede il prototipo del dandysmo romantico, realizzato poi nella vistosa incarnazione byroniana, come anche il rappresentante tipico di un’epoca «transitoire» la cui crisi egli visse profondamente (con una certa analogia con la posizione del Nietzsche: ripresa questa di un accostamento non nuovo nella critica alfieriana, ma certo piú suggestivo che utile a precisare la posizione e l’originalità storica dell’Alfieri). Da questa ricostruzione dell’animo e del significato dell’Alfieri, il P. ritorna poi al letterato e alla sua nozione di letteratura come libertà. Quanto alle ultime pagine in cui si tratteggia sommariamente un ritratto del poeta, esse appaiono meno vive delle precedenti in cui, pure fra diseguaglianze e forzature, certi lati della vita interiore alfieriana sono risentiti con particolare intelligenza e passione.

Nella conclusione, all’accettazione di una limitazione dell’opera poetica che «considerata secondo un criterio estetico, sembra valevole soltanto in minima parte» (appoggiata all’accoglimento di motivi di una parte della critica alfieriana: liricità e monotonia delle tragedie, tema centrale dell’odio contro ogni ostacolo che limita l’individuo), si oppone, sulla base della constatazione della novità di sentire rappresentata dall’Alfieri, la richiesta di «un altro criterio di giudizio che comprenda ad un tempo l’opera e l’uomo». Richiesta che si risolve piuttosto, pensiamo, nel bisogno di un approfondimento migliore della stessa opera poetica nelle sue ragioni storiche e nella sua peculiare originalità da cui risulti meglio il suo alto valore, il suo dinamico attuarsi in momenti artistici in corrispondenza allo svolgimento di una personalità piú ricca e complessa di quanto sia apparso ad una parte (si badi bene) della critica cui lo studioso si riferisce.

Lanfranco Caretti, Note alfieriane (con documenti inediti). «Convivium – Dai dettatori al Novecento, studi in onore di C. Calcaterra», Torino, SEI, 1953, pp. 219-228.

Il Caretti, che da tempo raccoglie e pubblica lettere alfieriane in vista dell’edizione dell’Epistolario a lui affidata dal Centro di studi alfieriani di Asti, ci offre in queste pagine una breve lettera da Pisa al Tiraboschi (30 maggio 1785) in ringraziamento del gradimento espressogli per l’invio del III volume delle Tragedie nell’ed. senese, e ripubblica una lettera del 16 ottobre 1788 da Parigi a G. A. di Castellalfero (già pubblicata nel 1933 da M. Visconti), identificando una copia di lettera-circolare per la diffusione di fogli di sottoscrizione alla nuova edizione delle Tragedie (simile a quella del 12 ottobre al Cerretti e ad una della stessa data al Quaranta Albergati, recentemente ritrovata nella biblioteca di Forlí).

Comunica inoltre notizie riguardanti il celebre sonetto sulla soppressione della Crusca e il testo finora inedito del biglietto con cui il Caluso annunciava alla contessa d’Albany di aver letto (mantenuto clandestino ed anonimo per evitare difficoltà da parte del governo granducale in vista di un ritorno a Firenze) e lo riportava con alcune correzioni alfieriane che vanno aggiunte alle varianti sinora conosciute; e aggiunge un abbozzo della dichiarazione che il Caluso fece all’Accademia di Torino per liberare l’amico dall’imbarazzante nomina inviatagli dall’Accademia e da lui non accettata.

Hélène Tuzet, Alfieri et Chateaubriand, «Révue de Littérature comparée», 1953, luglio-settembre, pp. 274-286.

L’autrice suppone che lo Chateaubriand abbia guardato alla figura e all’opera dell’Alfieri piú di quanto egli ci abbia fatto sapere attraverso la Lettre à Fontanes (in riferimento alla visita alla d’Albany e al Fabre subito dopo la morte del poeta e al pacchetto inviatogli a Roma dal Fabre con carte necessarie per un eventuale scritto sull’Alfieri), attraverso i tre passi dei Mémoires in cui si fa cenno diretto alla Vita e attraverso il giudizio riferito dal Marcellus sulla Vita, amata (allo stesso modo, aggiungiamo, di quanto avviene nei giudizi di Stendhal e in genere dei grandi romantici stranieri) contro l’impressione negativa delle tragedie per il loro «style roidi, froid et pompeux», per la loro presunta mancanza di «naturel».

Ricerca perciò (con una documentazione in vero non molto larga e ugualmente probante) possibili riflessi della Mirra nella situazione di Amélie nel René e stimoli della Vita nello stesso René e, meglio, nella concezione dei Mémoires, sottolineando le naturali capacità di suggestione delle analisi «proustiane» del tempo perduto in noti passi della Vita (giudicati piú sottili e profondi e anticipatori di altri passi delle Confessions di Rousseau) e ponendo ai «comparatisti» la domanda se i Mémoires sarebbero stati esattamente quali sono, qualora lo Chateaubriand non avesse letto e meditato la Vita alfieriana.

«La Rassegna della letteratura italiana», a. 58°, serie VII, n. 1, Genova, gennaio-marzo 1954

Mario Fubini, Di un giudizio sullo «stile composito» della Vita alfieriana, «Lingua nostra», vol. XV, 4, 1954, pp. 107-113.

Il giudizio che viene criticato in questo articolo è quello di Alfonso Jenni, Lo stile composito settecentesco nella redazione definitiva e anteriore della «Vita» di Alfieri, apparso nel «Convivium» del 1952: giudizio secondo il quale la Vita alfieriana sarebbe un ibrido frutto della mescolanza di due linguaggi, di due stili aulico e familiare, documento della non ancora risolta crisi linguistica settecentesca e persino di una scarsa saldezza e profondità della cultura e degli ideali estetici e linguistici dell’Alfieri. Vero è che poi lo stesso Jenni, proprio nel rilevare come la redazione definitiva della Vita accentuasse l’elemento aulico e classicheggiante e quindi in genere il carattere composito della prosa alfieriana, ammetteva che quelli che egli considera «difetti» od «errori» «finiscono per contribuire ad un risultato geniale e personale». Partendo da questa finale ammissione il Fubini ha buon giuoco nel dimostrare come – sulla base di una sistemazione linguistica comune agli scrittori della stessa epoca dell’Alfieri – il generale procedimento alfieriano – simile in parte a quello del Baretti che ha piú forti oscillazioni fra estro e pedanteria – consista in una chiara e personale reazione alla rilassatezza linguistica del proprio tempo (la sciatteria del Goldoni in «lingua») con un uso di forme classicheggianti e sostenute che son d’altra parte ben diversamente efficaci, e funzionanti in un impasto efficace di toni diversi, da quanto avviene in certe soluzioni piú enfatiche e letterarie come nelle Notti romane del Verri.

Ricollegata la Vita a precedenti prose autobiografiche di cui essa costituisce lo sviluppo piú maturo e complesso, il F. ricerca una radice centrale dello stile della Vita in un duplice atteggiamento di rievocazione e giudizio iroso o sorridente del passato, a cui ben si adegua il contrasto fra modi familiari ed aulici. Cosí anche il passaggio dalla prima redazione (un abbozzo, secondo le note conclusioni del Fassò che il F. accetta qui provvisoriamente con piú d’un dubbio, in attesa di una sua nuova considerazione del problema) a quella definitiva non è la correzione pedantesca ed aulica di una forma prima «naturale e moderata», ma è una vera e propria ricreazione «per la quale la Vita si fa non già composita, ma piú complessa, e dall’unità indistinta dell’abbozzo e, se si vuole, da quello che è per noi l a prima redazione, si sviluppano e trovano ciascuno il suo luogo i diversi motivi e i diversi elementi linguistici alla luce di una coscienza quanto mai acuta e coerente nelle numerosissime correzioni». Correzioni che anche nella loro forma «sostenuta» (inversioni, iperbati, ecc.), cosí coerenti ai celebri «alfierismi», che proprio nella seconda redazione tanto piú frequentemente appaiono, rappresentano (come il F. dimostra proprio prendendo le citazioni di cui lo Jenni si era servito per il suo giudizio di stile composito) tutti elementi coerenti di quello stile sintetico che viene a dar il massimo rilievo, «quasi isolandoli in unità a sé stanti, ai singoli elementi del discorso».

«La Rassegna della letteratura italiana», a. 59°, serie VII, n. 1, Genova, gennaio-marzo 1955

Vittorio Alfieri, Saul, interpretato da Attilio Momigliano, con un saggio introduttivo, D’Anna, Messina-Firenze, 1955, pp. 135.

Annunciamo con piacere questa opportuna ristampa del commento del Saul che il Momigliano pubblicò nel 1921 (Catania, Muglia) e di cui solo l’introduzione era ormai accessibile nella raccolta di saggi del volume Introduzione ai poeti (Roma, Tumminelli, 1946), mentre il commento, cosí integrante rispetto al saggio introduttivo e cosí energicamente personale e rinnovatore come concreta lettura e interpretazione del capolavoro alfieriano, era da molto tempo fuori commercio e difficilmente reperibile. Con questa ristampa, o con la ristampa piú volte edita da Vallecchi dell’altro commento momiglianesco alla Mirra, e con le pagine della Storia della letteratura dedicate all’Alfieri, gli studiosi possiedono cosí l’intera interpretazione alfieriana del M.: interpretazione che proprio nel commento del Saul e nel relativo saggio introduttivo ha il suo primo nucleo fondamentale. E se l’interpretazione generale e questo commento sono naturalmente suscettibili di discussione alla luce della complessa tematica e dei nuovi contributi presentati dalla ricca ed importante critica alfieriana del trentennio successivo all’uscita del commento del Saul, sarà comunque da rilevare la grande importanza di questo commento e del saggio introduttivo come originalissima offerta di un’interpretazione ancor valida in tanti suoi motivi generali e in tanti rilievi critici del capolavoro alfieriano: si pensi ad esempio alla decisa rottura dell’ammirazione retorica di tutti i commenti precedenti per le cantate di David, alla limitazione della «maestà fittizia» di David, al sensibilissimo rilievo della purissima voce di Micol e della «schiettezza» di Gionata, alla reazione contro gli eccessi realistici e «prelombrosiani» della recitazione del Modena cosí influente sulle interpretazioni di fine Ottocento e di primo Novecento, all’intuizione piú volte affermata della complessità della poesia alfieriana contro il prevalente giudizio di uniformità e monotonia che dominò la critica ottocentesca, all’individuazione precisa della grandezza poetica della scena prima del secondo atto distinta da parti in cui la stessa figura di Saul concede qualcosa alla grandiosità letteraria e agli aspetti piú esterni del colore biblico. E se a volte il commento appare forse troppo attento ai modi psicologici della vita del grande personaggio di Saul, l’acuta indagine già di per sé suggerisce la traduzione del termine psicologico in un piú sicuro rilievo artistico; cosí come, nelle pieghe di un’interpretazione che troppo punta sul carattere morale della lotta interna di Saul e sulla finale funebre vittoria di una coscienza che nell’estrema sventura riacquista il proprio dominio e afferma la nozione del giusto contro le passioni che l’hanno sconvolta e ottenebrata, il lettore attento molte volte recupera spunti stimolanti per un’interpretazione piú complessa e centrale nel rilievo del dramma fondamentale del tiranno-vittima di fronte alla forza oppressiva e limitativa di una potenza superiore, cui il Dio biblico cosí opportunamente offriva la sua grandiosa, cupa, feroce immagine. Né, soprattutto, si può dimenticare come questa stessa accentuazione del sentimento morale alfieriano, sviluppato poi nel commento della Mirra, sia stata (nella forte capacità di «iniziativa» critica del Momigliano, uno dei temperamenti critici piú assolutamente schietti e originali del nostro tempo) decisiva nell’arricchimento e nell’approfondimento della personalità alfieriana proprio nel momento in cui – sulla essenziale apertura critica del grande saggio crociano del ’17 – si profilava il pericolo di un irrigidimento troppo schematico e unilaterale del titanismo e dell’individualismo «protoromantico», il pericolo di una limitazione della complessa umanità alfieriana, di una poesia cosí ricca di sensibilità, di profondi toni tragico-elegiaci (e il commento alla Mirra meglio spiegava questa ricchezza di delicatezza suprema e di poetica pietà già avvertite qua e là negli abbandoni nostalgici, nelle affettuose vibrazioni paterne di Saul), cosí insieme eroica, dolorosa ed umana, ben piú tormentata e sofferta di quanto sarebbe stata la semplice voce possente e monotona di una barbarica, anarchica volontà di potenza individualistica.

E senza voler qui indagare minutamente sull’incidenza del saggio introduttivo e del commento saulliano del M. sullo svolgimento del problema critico alfieriano, si dovrà almeno ricordare come l’interpretazione «morale» del Momigliano abbia in parte sollecitato anche una revisione della stessa valutazione storica del Croce incentrata nell’analogia della posizione alfieriana con quella degli Stürmer und Dränger: il saggio del ’32 di L. Vincenti che tanta importanza dà alla sensibilità morale dell’Alfieri come uno degli elementi che lo distinguono da quei suoi vicini storici.

Vittorio Alfieri, Rime, edizione critica a cura di F. Maggini, Asti, Casa d’Alfieri, 1954, pp. XXVII+362.

Questo nono volume della bellissima edizione astese riproduce e arricchisce l’edizione critica delle Rime che nel 1933 (Firenze, Le Monnier) il Maggini offrí agli studiosi come prezioso, validissimo mezzo di conoscenza di una parte cosí importante della poesia e della personalità alfieriana. Si pensi all’edizione nazionale del 1903 cosí trascurata ed incerta (fondata sulla Molini, non sulle copie dell’edizione originale di Kehl e non sui manoscritti di cui invece si serví il Guastalla nella sua scelta commentata del 1912 almeno per segnare le date e le occasioni delle poesie), assolutamente insufficiente come testo privo di ogni apparato di varianti, e si comprenderà che cosa abbia rappresentato l’edizione del Maggini, sicurissima come testo, arricchita di molte poesie «sparse» (di fronte alla decina di queste racimolate nell’edizione del 1903), di tentativi lirici giovanili, e di una completa riproduzione cronologicamente disposta (anche se senza la precisazione impossibile delle date delle singole redazioni) delle varianti e delle redazioni precedenti quella definitiva. E come il nuovo testo stimolò al suo apparire nuove importanti interpretazioni delle Rime (sulle quali l’attenzione era stata richiamata precedentemente solo dal Croce nel saggio del ’17), cosí quel prezioso apparato di varianti può sollecitare tuttora gli studiosi ad un piú attento rilievo delle direzioni della poetica e del linguaggio alfieriano in una attività poetica solo apparentemente di «sfogo immediato» e cosí singolare e insieme integrante negli intervalli di stasi della creatività tragica, nell’aspirazione alfieriana all’autoritratto, nella zona piú intima dell’ultimo Alfieri.

La nuova edizione astese riproduce sostanzialmente l’edizione del 1933 riveduta nuovamente sui manoscritti e accresciuta con il complemento di tutte le rime di «rifiuto» del ms. 3 della Laurenziana, solo in parte già pubblicate dal Branca nel suo volumetto L’Alfieri e la ricerca dello stile, Firenze, 1947 (escluse naturalmente le rime satiriche che verranno pubblicate nel volume delle Satire ed escluse le odi L’America libera e Parigi sbastigliato riservate per il volume che conterrà l’Etruria vendicata e il Misogallo), e da due sonetti (sulla cui paternità alfieriana si possono avere legittimi dubbi) recuperati dal Barolo dalle carte di Asti nel 1937. Il testo con l’apparato alla fine di ogni componimento (testo sicurissimo come quello del ’33; e potrei notare nella nuova edizione solo qualche rarissima svista tipografica: «gl’idoli» per «gli idoli» nel son. L della prima parte, «celsti» per «celesti» e «tramanda» per «tremenda» nel XLVIII della seconda parte) è preceduto da una limpida introduzione (peccato che il Maggini non abbia riprodotto l’intero, spiegato ragionamento con cui, nell’edizione del 1933, aveva illuminato anche criticamente il testo da lui cosí magistralmente curato) che rifà la storia dell’edizione e dei manoscritti delle due parti autorizzate delle Rime con le loro curiose e complesse vicende (la prima parte edita – ma non «pubblicata» – a Kehl, la seconda lasciata pronta per la stampa e pubblicata solo nel 1804 in un volume a parte divenuto ora raro e sfuggito agli studiosi fino ad un articolo del 1910 di L. Vischi, e in un volume riadattato come XI delle Opere postume, abilmente ridotto per esigenze di opportunità politica e privo quindi degli epigrammi antifrancesi che cosí il Renier poté credere inediti); giustifica la composizione della parte di rime sparse tratte dagli autografi, disposte in ordine cronologico, e dell’Appendice che comprende tutte le rime del ms. 3 «esplicitamente rifiutate dall’autore e considerate col valore di puri documenti per i primi tentativi nella lirica»; ed espone i criteri di edizione delle varianti tutti chiaramente subordinati – nella loro semplicità e nitida funzionalità – allo scopo fondamentale enunciato dall’editore: «quello che preme è far capire, nel modo piú chiaro possibile, come lavorava l’Alfieri». E, ripeto, a questo scopo e a quello della sicura conoscenza del testo definitivo l’edizione e l’introduzione del Maggini sono davvero esemplarmente indispensabili.

Ferdinand Boyer, Vittorio Alfieri et les beaux-arts, «Atti del V Congresso di Letterature moderne», Firenze, Valmartina, 1955, pp. 279-284.

Il presente articolo, insieme ad altri già segnalati in questa «Rassegna», fa parte di un volume, importante e ricco di saggi sul tema delle relazioni fra arte e letteratura, che è il risultato del V Congresso di Letterature moderne e che è stato curato da Carlo Pellegrini, Presidente dell’Associazione di Letterature moderne.

Rivelata la particolare sensibilità dell’Alfieri per la musica, testimoniata soprattutto dai celebri accenni della Vita all’emozione profonda dell’adolescente e del giovane alle rappresentazioni di opere liriche (e, oltre l’importantissima «confidenza» del poeta circa la nascita di quasi tutte le sue tragedie sotto l’impressione immediata della musica «o poche ore dopo», si poteva sottolineare la singolare direzione della fantasia alfieriana volta istintivamente a sentire tragicamente persino gli stimoli dell’opera buffa, a svolgere in tensione appassionata e malinconica una suggestione che altri artisti neoclassici svolgevano in un coefficiente di calma interiore, di rasserenamento dalle passioni), la breve «comunicazione» raccoglie le scarse testimonianze di un interesse dell’Alfieri per le arti figurative, concludendo per una particolare insensibilità specie nei riguardi della pittura e della scultura (il poeta avrebbe assolutamente ignorato la intensa vita artistica francese durante il suo soggiorno parigino e di ciò sarebbe prova anche l’assenza di ogni quadro o scultura di qualche valore negli appartamenti abitati dal poeta e studiati dal Boyer in un articolo apposito uscito in «Rivista di Letterature moderne», ottobre 1950) e indugiando sui rapporti di amicizia dell’A. con il Fabre durante l’ultimo periodo della sua vita a Firenze: rapporti che (malgrado la nota Osservazione di un ignorante in cui il poeta critica una statua del Silenzio) non implicherebbero alcun particolare interesse dell’A. per le arti figurative.

Si può osservare che il breve studio (nel quale occorre rilevare una svista circa il rapporto tra il sonetto autoritratto Sublime specchio che è del 1787 e non poteva perciò essere ispirato dalla tela del Fabre che è del 1793) avrebbe assunto maggior interesse se avesse tenuto conto delle dichiarazioni alfieriane circa il primato della poesia rispetto alle arti figurative in relazione alla sua poetica del «forte sentire» e della funzione attiva e liberatrice della poesia (nel trattato Del principe e delle lettere, specie nel cap. V del libro II) e non avesse trascurato, fra l’altro, la significativa ammirazione per Michelangelo nelle Rime e nell’Etruria vendicata (dove l’ammirazione per l’artista sublime, destinato a celebrare imprese divine ed eroiche, si svolge, in una celebre ottava, nello sdegno per la sua condizione cortigiana che lo avrebbe costretto a «ritrarre eroi a cui fu campo il letto»): elementi che potrebbero sollecitare un discorso molto piú interno sul tema scelto dal Boyer. Per non dir poi di come un simile discorso potrebbe estendersi in una ricerca sulla concreta tendenza della poesia alfieriana delle Rime a immagini e quadri violentemente romantici (dopo le prime prove dei sonetti «pittorici» del ’76, prova di una adesione a forme settecentesche di gara della poesia con la pittura e di una attenzione a un manierismo rococò-neoclassico che traspare in certi atteggiamenti di figura elegante e accarezzata in altri sonetti galanti del primo periodo), quali possono essere, ad es., il paesaggio del grande sonetto per la Certosa di Grenoble e l’immagine nuovissima del cavaliere solitario errante lungo le rive del mare invernale in tempesta nel sonetto di Marina di Pisa. Dove si potrebbe notare un’originale capacità di rinnovamento anche iconografico che supera i possibili equivalenti pittori settecenteschi preromantici, come nelle stesse Tragedie è implicita una novità di impostazione di figure e di scene che supera i dati precisi della scenografia settecentesca. Ma certo un simile studio, che si risolverebbe in un discorso sulla fantasia alfieriana e si allargherebbe insieme allo studio dei rapporti tra il gusto dell’Alfieri e quello del neoclassicismo e del preromanticismo, andava ben al di là di una «comunicazione» impostata come ricerca di dati e testimonianze biografiche sull’attenzione e l’interesse dell’Alfieri per «le arti»: in quei limiti essa è apprezzabile e interessante.

«La Rassegna della letteratura italiana», a. 59°, serie VII, n. 2, Genova, aprile-giugno 1955

Paul Sirven, Vittorio Alfieri, VIII, Paris, Boivin, 1951, pp. 171.

È l’ultimo volume di una monografia alfieriana iniziata nel 1934, opera dello studioso francese recentemente scomparso. Non si potranno certo celare il carattere assolutamente acritico di quest’opera, il suo candore di criteri antiquati di valutazione psicologica, «verisimile» e moralistica delle opere d’arte, ma pur nello strano rapporto dello studioso, e del suo amore inadeguato, con un autore come l’Alfieri, non sarà eccessivo ricordare l’utilità di quest’opera, specie nella parte che riguarda la giovinezza alfieriana, come raccolta assai diligente di documenti utili per la ricostruzione della biografia del poeta (e si pensi ad es., per il periodo romano 1781-83, all’utilizzazione del diario inedito del cardinale di York, il cognato della d’Albany). Molto piú deboli anche da tal punto di vista gli ultimi volumi, piú frettolosi e sbrigativi proprio in un periodo della vita dell’Alfieri (in Francia e a Firenze) che piú chiederebbe una raccolta precisa di documenti e di testimonianze.

Lanfranco Caretti, Un frammento inedito di lettera alfieriana, «Giornale storico della letteratura italiana», LXXII (1955), 397, pp. 57-63.

Con il ritrovamento di una bozza di stampa della lettera al Cesarotti del 25 aprile 1796, il Caretti ha potuto ricostruire il testo intero di quella lettera edita frammentariamente nelle successive edizioni di lettere alfieriane (fino a quella del Mazzatinti e dell’ed. nazionale del 1903) nelle quali era stata riprodotta dall’epistolario cesarottiano. Sulla bozza la lettera alfieriana era stata privata della sua parte piú interessante dall’intervento di un discepolo del Cesarotti, Giuseppe Barbieri, intervento dettato da ragioni di prudenza politica. Il brano soppresso conteneva infatti una aperta professione di fede politica (in risposta alla domanda del Cesarotti: «Non so se le vostre idee siano tuttavia democratiche»), tanto bruciante nei riguardi della rivoluzione francese quanto nei confronti dell’impero napoleonico (l’Epistolario cesarottiano venne pubblicato dal 1811 in poi). E si ricordi in proposito come nel periodo napoleonico la censura si esercitasse attivamente sulle opere alfieriane per il loro significato insieme antifrancese e antidispotico, e come il bando del concorso dell’Accademia Napoleone di Lucca chiaramente alludesse alla perniciosità politica delle stesse tragedie alfieriane, e come il Foscolo reagisse, in un celebre scontro con il Monti, alla moda «cortigiana» che nel Regnio Italico deprimeva, per prevalenti ragioni di conformismo, l’opera dell’Alfieri.

La dichiarazione recuperata («Quanto a ciò ch’ella mi accenna in fine della sua, desiderando sapere se le mie opinioni siano tuttavia democratiche, dirò che la libertà essendo stata sempre per me un bisogno del cuore e della mente e non mai una leggenda di moda, sono rimasto invariabile su tale soggetto. Idolatria per essa e aborrimento maniaco per tutti i tiranni e le tirannidi, sotto qualunque maschera si producono. Ho imparato bensí da queste tante vicende a discernere il popolo dalla plebe ed i tanti liberti dai pochissimi liberi. Con queste due distinzioni chiaramente collocate nel mio intelletto, credo d’esser rimasto libero per lo meno quanto io era per l’addietro e forse alquanto piú degno di esserlo») è molto incisiva e importante, anche se ben si collega a simili dichiarazioni che abbondano nel Misogallo e nelle Rime ed Epigrammi della II parte, in cui l’avversione per la licenza-non libertà e per i metodi tirannici della rivoluzione francese si associa nettamente al rifiuto di rinnegare l’amore per la libertà e l’odio per i regimi monarchici assoluti (con l’importante indicazione nell’Antidoto di una possibile monarchia costituzionale all’inglese).

Sergio Rossi, Un giudizio di Francis Jeffrei su V. Alfieri, «Aevum», XXIX (1955), 2, pp. 179-180.

Espone un giudizio sull’Alfieri contenuto in una recensione della Vita dell’Alfieri tradotta in inglese, apparsa sulla «Edinburgh Review» del gennaio 1810 e attribuibile al direttore, Francis Jeffrei. Giudizio centrato sul rilievo del carattere indipendente e virile dell’Alfieri, della sua presunta amoralità e della mancanza di tenerezza nel descrivere le memorie dell’infanzia, e, per quanto riguarda il suo atteggiamento politico, sul contrasto fra il suo ideale repubblicano e l’avversione alla repubblica francese, che conduce il J. alla definizione di un «repubblicanesimo romano» in cui uomini di grandi meriti potevano divenir dittatori e all’osservazione che l’Alfieri non amava i re perché non era nato tale. Giudizi, come si vede, assai approssimativi, basati sulla constatazione dell’egocentrismo alfieriano ed evidentemente su di una scarsa conoscenza del preciso svolgimento dell’atteggiamento politico alfieriano. Quanto alle tragedie notevole e insolito appare – piú che un confronto con quelle dello Shakespeare e il rilievo del loro classicismo, della loro mancanza di linguaggio dolce e fluente – l’accentuazione della indipendenza dei personaggi rispetto alla personalità dell’autore e dello sforzo di purificazione che lo stile nobilmente corretto rappresenterebbe rispetto alle fonti passionali che animano i personaggi. Il Rossi individua giustamente in alcune parti della recensione del Jeffrei echi della Corinne staeliana (e attraverso questa di note affermazioni di A.W. Schlegel); ma inutile e ozioso ci sembra il preambolo sulla indipendenza del J. da giudizi che non poteva evidentemente conoscere per ovvie ragioni cronologiche, come quelli del Sismondi e del Foscolo non ancora formulati all’epoca di quella recensione. Errato poi è l’accenno alle edizioni «inglesi» delle opere alfieriane, ché la indicazione di Londra come luogo di stampa per l’edizione delle opere del 1804 è una falsa indicazione per ragioni di opportunità: le Opere vennero infatti edite a Firenze dal Piatti.

«La Rassegna della letteratura italiana», a. 59°, serie VII, n. 3-4, Genova, luglio-dicembre 1955

Carlo Castiglioni, Sonetto inedito di Vittorio Alfieri salvato da un portiere dell’Ambrosiana, «Lo smeraldo», IX (1955), 6, pp. 19-22.

C. Castiglioni, prefetto della biblioteca Ambrosiana, pubblica un sonetto rinvenuto in una miscellanea di stampe e manoscritti, nel fondo raccolto da un portiere dell’Ambrosiana all’inizio dell’800, Giovanni Angelo Marelli. Il sonetto, intitolato Vaticinio, e vaticinante in toni biblici la caduta dell’empia Parigi rivoluzionaria per opera della mano vendicatrice di Dio, porta il nome dell’Alfieri, ma non è autografo e la sua lettura non convince affatto della paternità alfieriana. Sembra piuttosto opera di un principiante montiano, enfatico e stentato insieme e che tenta di supplire alla mancanza di una vera ispirazione con un accumulo goffo di immagini ed echi biblici e con artificiosi giuochi di rime difficili («libra», «cribra», «vibra», «sfibra») derivante dal sonetto CXCVIII del Canzoniere petrarchesco. Ben diverso è lo stile alfieriano anche quando è piú sforzato e cavilloso.

Vittore Branca, Per la storia delle «Satire» alfieriane. Estratto da Studi letterari in onore di E. Santini, Manfredi editore, Palermo, 1955, pp. 64.

Il Branca, che già efficacemente tracciò la storia della elaborazione stilistica delle Rime alfieriane (in Alfieri e la ricerca dello stile, Firenze, 1947), studia ora in questo ampio saggio la formazione delle Satire, la loro preparazione «diluita lungo vent’anni, scartata continuamente dal sopravvenire di piú imperiose sollecitazioni (da quelle delle Tragedie a quelle delle operette politiche, da quelle delle Rime a quelle degli Epigrammi), fatta piú di intenzioni e di volontà che di violenta e ineludibile ispirazione», e in cui «la genesi dei singoli componimenti sembra obbedire non a rigorose costanti ma al variare di occasioni del tutto episodiche». Partendo dai primi accenni satirici nelle «prime sconciature» del ’ 75-77, nel ms. 3 della Laurenziana, già indagate dal B. in altri capitoli del libro ricordato e nel saggio Momenti autobiografici e momenti satirici nell’opera di V. Alfieri (nel volume collettivo che l’università di Firenze pubblicò nel ’49 per il centenario alfieriano), lo studioso ricostruisce ora piú ampiamente il passaggio alla fase piú precisa del ’77 (l’anno che vede il primo tentativo di satire, la lettura di Giovenale, Orazio, Persio, la compilazione del Vocabolario satirico, lo schema di dodici satire) e al periodo dell’86-87, in cui l’indignatio antiilluministica e antivoltairiana, la volontà di una polemica vasta e impegnativa, sollecitano l’istinto satirico dell’Alfieri alla realizzazione delle Satire. Ma il B., al di là di questa linea generale (e che in una storia completa della personalità alfieriana andrebbe corroborata da un pieno esame dello sviluppo dell’animo alfieriano e del suo risentito contatto con il «secol vile», con il secolo «tanto ragionatore e nulla poetico», o che tale apparve agli occhi del grande preromantico), mira qui a precisare la storia piú puntuale delle singole satire, con i loro «itinerari vari e capricciosi», variamente lenti o rapidi, «svogliati» o impetuosi, fondati su schedule in prosa, su brani della Vita (per I pedanti i passi dell’Ep. IV, 2, 9, 10; per I viaggi la narrazione dell’Ep. III; per L’educazione gli accenni alla propria educazione infantile nell’Ep. I; con una trascrizione in chiave satirica e intenzionalmente universale di situazioni già piú sottilmente e diffusamente definite e ritratte in senso lirico-autobiografico) o su premesse dei trattati politici; per poi applicarsi a seguire il lavoro stilistico nel giuoco delle correzioni e varianti, ripercorso e precisato in esempi assai efficaci e puntuali del modo con cui l’Alfieri realizza toni caricaturali o toni di invettiva e di sarcasmo con riprese di procedimenti drammatici, di moduli ed espressioni dantesche nella ricerca di un discorso risentito e sferzante, particolarmente rafforzato nell’aggettivazione assiduamente riveduta e migliorata, nel rilievo pungente e sdegnato dei versi conclusivi, dove è spesso anche piú forte il gusto dei neologismi satirici. Il saggio è ricco di osservazioni, di indicazioni, di premesse di quella nuova lettura piú intera delle Satire che il B. si augura (da condurre, io penso, in chiara relazione con un nuovo e piú intero disegno critico dello sviluppo complesso dell’ultimo Alfieri, e non in semplice forma di lettura stilistica) e che potrà venir meglio ancora sollecitato e agevolato dalla edizione critica delle Satire a cui da tempo lavora Pietro Cazzani. Anche ai fini di tale edizione il saggio presente offre un’utile raccolta di materiale riportato nell’appendice: la prima idea e il primo schema delle Satire, la descrizione dei manoscritti di Montpellier e di Firenze, con i loro schemi ed abbozzi in prosa e in versi, le prime redazioni dei singoli componimenti.

«La Rassegna della letteratura italiana», a. 60°, serie VII, n. 1, Genova, gennaio-marzo 1956

Gherardo Marone, Vittorio Alfieri poeta de la virtud heroica, Instituto de Literaturas neolatinas, Buenos Aires, 1951, pp. 143.

Segnalo, malgrado il grande ritardo con cui lo ricevo e lo leggo, questo volumetto (dovuto al titolare di letterature neolatine dell’Università di Buenos Aires) perché oltre all’interesse che ha, nella storia della fortuna alfieriana, il capitolo finale Algunas noticias sobre la fortuna de Alfieri en la Argentina (una fortuna teatrale di origine prevalentemente politica che fece dell’Alfieri «uno dei padri spirituali dell’indipendenza argentina» e che si riflette nel deciso alfierismo dei drammaturghi argentini di primo ottocento – Várela, Quintana –), il saggio di diretta interpretazione che il Marone offre della personalità alfieriana mi sembra interessante comunque per la riprova della estrema forza di novità dell’Alfieri, del fondo perennemente suggestivo della sua personalità, per l’appassionata adesione che essa può imporre, per le forme di avvicinamento personale che sollecita. Naturalmente non mancano al Marone una preparazione storica e la consapevolezza del problema critico alfieriano che egli riprende soprattutto nelle formulazioni del Croce e del Russo, ma la suggestione di questo piccolo libro (che sembra nascere da una tensione alla libertà che altri provò sotto il regime fascista accogliendo cosí l’Alfieri come una esperienza di liberazione totale, di assoluta protesta) consiste, ripeto, in questo carattere di lettura personale e appassionata, a cui (specie attraverso le rime e la loro tematica di melanconia, di solitudine, di senso del tedio e dell’oppressione vitale) l’anima alfieriana si presenta schiva e purissima, reattiva all’urto e alla volgarità della realtà, preludio vigoroso e originalissimo al dramma del romanticismo. Molte affermazioni sono piuttosto enfatiche e discutibili (troppo alla fine si insiste sul pudore e l’esercizio ascetico alfieriano nella rinuncia al mondo, donde la naturale mèta piuttosto ancora che nelle tragedie nel trattato Della virtú sconosciuta), ma, ripeto, si tratta comunque di una testimonianza viva della forte suggestione alfieriana: né mancano nel libro osservazioni e rilievi fini su singoli aspetti della personalità alfieriana, delle tragedie, e specie sul «miracolo» della Mirra.

«La Rassegna della letteratura italiana», a. 60°, serie VII, n. 3, Genova, luglio-dicembre 1956

Lanfranco Caretti, Tre lettere inedite dell’Alfieri a Paolo Frisi, «Giornale storico della letteratura italiana», LXXXIII (1956), 403, pp. 384-389.

Pubblica tre lettere (trovate da Franco Venturi nel fondo Eg. 12 del British Museum) indirizzate (due da Siena, 31 agosto e 15 settembre 1783, una da Genova, 17 ottobre dello stesso anno) a Paolo Frisi e comprovanti un incontro dell’Alfieri con l’abate lombardo nel 1783 a Milano, incontro che rientra nella nota ricerca e richiesta da parte del poeta di giudizi di letterati settentrionali sul primo volume dell’edizione senese delle Tragedie. Proprio in rapporto a questi incontri del poeta con scrittori settentrionali (si ricordi però la conclusione negativa della Vita anche circa gli stessi giudizi e consigli del Parini, del Cesarotti e «degli altri valenti uomini ch’io col fervore e l’umiltà d’un novizio visitai ed interrogai in quel viaggio per la Lombardia») è notevole in queste lettere, piú che la richiesta dei giudizi allo stesso Frisi, la speranza di un giudizio da parte del D’Alembert (a cui l’Alfieri voleva farsi presentare dal Frisi dopo che questi aveva inviato all’illuminista francese una copia della edizione senese) e l’accenno allo conoscenza avvenuta in Milano con Pietro Verri e fino ad ora ignorata. Particolarmente interessante per la storia interiore dell’Alfieri in quell’epoca mi appare, nell’ultima lettera da Genova, lo scatto malinconico del finale: «In cammino per distrarmi ma post equitem sedet atra cura», che cosí bene colorisce il viaggiare inquieto dell’Alfieri nel periodo piú intenso della «lontananza» dalla d’Albany e delle rime appunto di «lontananza», in una fase che accentua nelle rime il dolore della separazione («Sepolto ho il cor ne’ gravi affanni suoi / forza ria dal mio bene hammi partito») e lo complica con il senso della sazietà e della scontentezza del viaggio pure intrapreso come distrazione ma ormai rivelante il fondo monotono delle impressioni di luoghi già noti («Senna e Tamigi, ove ogni stolto ha fede / che alberghi sol beatitudin piena / visti e rivisti ho già: né in me piú riede / la vaghezza che l’uom d’attorno mena»): elementi che poi si risolvono nel grande sonetto per la Certosa di Grenoble – 2 novembre – nella rivelazione della tristezza originaria («la mestizia è in me natura»), vero fondo del tormento alfieriano, solo suscitato dalla «lontananza».

Vittorio Alfieri, Virginia, a cura di Carmine Jannaco (Tragedie, vol. IV), Asti, Casa d’Alfieri, 1955 (ma 30 aprile 1956), pp. 319.

Come i precedenti volumi curati dallo Jannaco (Filippo, Polinice, Antigone), questo nuovo volume della edizione critica delle tragedie alfieriane offre, oltre al testo definitivo, l’idea, la stesura in prosa, le successive versificazioni con le ultime varianti. Precede una nota del curatore che traccia, con chiarezza e sobrietà, la storia della elaborazione della tragedia dall’idea del 19 maggio 1777 alla stesura composta fra l’8 e il 17 settembre dello stesso anno, e poi dalla prima versificazione (nella quale, anche in relazione alle osservazioni del Lampredi, l’Alfieri apportò e completò modificazioni strutturali già in parte iniziate nella stessa stesura) fra il 10 novembre 1777 e il 21 gennaio 1778, alla seconda (5-22 luglio 1781), sulla quale il poeta ritornò insoddisfatto negli anni successivi, prima con una nuova revisione della struttura (specie per quanto riguarda il terzo atto), poi con un lavoro di perfezionamento continuato sin sulle bozze e sui «cartolini» dell’edizione Didot. Riservandoci di tornare a parte sulla storia della elaborazione di questa tragedia (nata nell’atmosfera del trattato della Tirannide e legata ad alcune tipiche oscillazioni del pensiero alfieriano circa l’esito di gesti eroici individuali e del loro effetto sul popolo), vogliamo fin d’ora osservare come nel finale (punto sensibilissimo e tormentoso del diagramma tragico alfieriano) solo nella redazione definitiva il poeta giungesse al pieno sviluppo dell’impeto rivoluzionario del popolo, il cui grido tirannicida svolge coralmente quello di Virginio e soffoca possentemente la voce di Appio che manifesta la sua intenzione e speranza di domare i ribelli. Nell’«idea» il popolo «invilito cedeva alle minacce di Appio ed all’aspetto dei littori», nella «stesura» all’esortazione di Icilio (poi tolto dal finale) al popolo corrispondeva, in tensione, il titanico grido del tiranno («Ed io pure saprò traditori punirvi, annullarvi o morire»), mentre nella prima e seconda versificazione il movimento di ribellione del popolo (enucleato in «voce» del popolo solo nella seconda) veniva come attutito dal finale ergersi del tiranno: «Tempo a punirti del misfatto orrendo / perfidia ancor pria di morir m’avanza».

«La Rassegna della letteratura italiana», a. 61°, serie VII, n. 1, Genova, gennaio-marzo 1957

Alessandro Passerin d’Entreves, Il patriottismo dell’Alfieri, in Dante politico e altri saggi, Torino, Einaudi, 1955, pp. 175-199.

È il testo di una conferenza tenuta all’Università di Aberdeen nel 1953 e poi pubblicata nel volume Studi in memoria di Gioele Solari, Torino, 1954.

Considerata la validità pratica del mito risorgimentale di un Alfieri maestro di patriottismo, ispiratore magnanimo della libertà ed unità di Italia, il Passerin analizza la genesi e la natura precisa del patriottismo alfieriano, la sua evoluzione dalla nozione illuministica «non c’è patria dove non c’è libertà» («Il n’est point de patrie sous le joug du despotisme» affermava la Encyclopédie) allo scarto della soluzione voltairiana ubi bene ibi patria e all’affermazione ubi patria ibi bene, lo sviluppo, interno alla morale eroica dell’Alfieri e al suo culto (ma culto comunque, preciserei, pessimistico e non scompagnabile dall’alfieriano «purtroppo») della violenza come origine di ogni grandezza, verso la esaltazione della insuperabilità delle differenze nazionali e dell’odio nazionale. Donde deriva la conclusione che in realtà l’Alfieri non fu maestro di libertà e di patriottismo, dato il deciso aspetto illiberale, reazionario del suo patriottismo e che anzi egli fu «il diretto precursore di quel cieco e orgoglioso nazionalismo che doveva un giorno avvelenare la coscienza politica del nostro paese» e il promotore di una pericolosa concezione di letteratura patriottica, «dell’ingannevole sostituzione di un patriottismo retorico e millantatore alle umili, silenziose virtú che sole possono assicurare la grandezza e il buon nome di un popolo». Conclusione che il Passerin suffraga con affermazioni del Foscolo (sulla cui valutazione alfieriana ci sarebbe però molto da distinguere e precisare) e del Manzoni, per il quale l’Alfieri «non fu liberale, non patriota, non democratico». Ora, a parte il fatto che è impossibile separare nell’Alfieri le intuizioni e le espressioni di una passione politica (piú che vero, spiegato pensiero) dalla funzione che esse hanno nell’interna dinamica della sua personalità volta all’espressione poetica, dove egli ha la sua peculiare e vera grandezza, e che le sue concezioni politiche (sempre echeggianti di un significato intimo piú profondo e metapolitico, di un’ansia esistenziale che carica il contrasto libertà-tirannide di una drammatica sofferenza della situazione umana) vanno intese entro una intuizione della vita violentemente preromantica che importa un eccezionale rilievo al sentimento dell’individuale e dell’individualità nazionale, mi sembra che contro la conclusione del Passerin si debba invocare comunque una piú avvertita coscienza storicistica. Certo il patriottismo alfieriano, specie nella fase misogallica, è feroce e diverso da quello piú generoso e illuminato del nostro Risorgimento, ma pure esso rappresentava l’esplosione violenta, passionale di una nuova coscienza nazionale, e lo stesso «odio nazionale» alfieriano era un momento romanticamente caratteristico e necessario della individuazione della nazione. Né d’altra parte, nella stessa fase senile dell’Alfieri, in cui gli elementi rivoluzionari libertari appaiono piú deboli di fronte alla accesa passione patriottica, si deve ignorare, specie nelle commedie politiche, una sincera, anche se confusa, ricerca di soluzioni politiche in direzione costituzionale liberale. Sicché, non per equivoco, accettando tali indicazioni, insieme alla lezione piú viva della Tirannide e alla esaltazione della nozione di patria, i liberali piemontesi del ’21 potevano chiamare l’Alfieri «nostro santo», cosí come non mancò mai all’Alfieri il livore deciso dei reazionari. E la sua solitudine sdegnosa, la sua nuova concezione del letterato anticortigiano e anticonfomistico («né visto è mai dei dominanti a lato») mal può ridursi a promotrice di una «letteratura patriottica» retorica e millantatrice. Non si può in alcun modo confondere Alfieri con d’Annunzio. Né questa era certo l’intenzione del Passerin.

«La Rassegna della letteratura italiana», a. 61°, serie VII, n. 2, Genova, aprile-giugno 1957

Giampaolo Dossena, L’«Esquisse» dell’Alfieri. «Studi letterari per il 250° anniversario della nascita di C. Goldoni», «Studia Ghisleriana», serie II, vol. II (1957), pp. 257-329.

Tracciata una breve storia della «scoperta» ottocentesca dell’Esquisse du jugement universel (dalla lettura scettica e affrettata del Teza e dall’interesse documentario del Novati all’indagine piú precisa e ricca del Fabris), lo studio del Dossena delinea anzitutto l’origine dell’operetta giovanile alfieriana nell’ambito dell’esperienza della «Società» del palazzo di Piazza San Carlo (in cui la letteratura entrava solo come un oggetto di snobistica ostentazione o di snobistica ironia, e in cui la stessa polemica antitirannica diviene «scherzo anticortigiano svolto tra cortigiani») e in un interesse piú psicologico che letterario, in una fase di crisi irrisolta, nella quale la personalità alfieriana appare incerta e vari temi di diversa vitalità ondeggiano e si traducono in diversi toni ironici, moralistici, patetico-meditativi. Toni che il Dossena analizza minutamente: nei toni ironici si può isolare una tendenza di dicotomia dell’aggettivazione giudicante (svolta poi nella Tirannide) ancora piuttosto precaria, mentre l’ironia, al di là del piú pacifico divertimento, supera a volte la stessa satira fino a violenti scatti moralistici che non trovano però esito intero e tornano a trasformarsi nei prevalenti modi ironici, e viceversa certo gusto moralistico-picaresco finisce per rivelare a sprazzi un moralismo originalissimo e piú seriamente alfieriano in forme di reazione piú istintiva, moralmente ed esteticamente piú autentiche (fino ad un gusto del laido, dell’osceno che nella sua insistenza polemica pare al D. uno dei piú chiari segni di rottura con un costume corrotto). Nell’ambito dei toni patetico-meditativi viene poi soprattutto indagato il cosiddetto autoritratto, sostanzialmente non piú che un presentimento della rivoluzione di valori che si attuerà nei Giornali (nei quali si rileva giustamente la caduta di certi residui di illuministica utilità pubblica della propria vita). In conclusione nell’Esquisse andrebbero indicati elementi dinamicamente piú validi «in certe notazioni sparse dove affiora un primo giudizio complessivo su questo stesso momento di letteratura saggistica dilettantesca, sulla “Société”, sul costume contemporaneo, col che il giovane Alfieri cominciò a prendere coscienza dei confini del proprio io per via di quelle reazioni elusive violente e incerte, ironiche, moralistiche e patetico-meditative» che il D. ha cercato di precisare nel suo studio complesso e sottile. Studio indubbiamente interessante ed acuto, ricco di osservazioni e spunti che possono implicare avvii di una personale interpretazione alfieriana piú generale ancora in formazione, e che d’altra parte appunto per tale loro carattere germinale, incontrandosi con un esame cosí minuto e a volte persin minuzioso, finiscono per sottoporre l’operetta giovanile alfieriana ad una indagine di significati persino un po’ sproporzionata all’oggetto: come in generale spesso avviene in questi studi di un’opera «prima» in cui lo studioso ricerca per presenza o assenza un po’ tutta la futura personalità dell’autore. Mentre par di avvertire un certo contrasto fra la forte limitazione dell’operetta in zona dilettantesca (alla fine troppo perdendo di quella ricerca di rapporti letterari su cui viceversa il Raimondi aveva insistito ex abundantia) e l’eccessivo minuto rilievo di intenzioni e tendenze del giovane scrittore nell’ambito dei vari toni e modi. Malgrado ciò lo studio porta alcune precisazioni accettabili ed utili soprattutto per quel che riguarda l’attenzione a forme di reazione piú istintive di fronte a quelle piú convenzionali e illuministiche, nelle quali pure, a volte – caso dello scherzo della famiglia nobile che vive da generazioni senza cuore, caso del personaggio che si presenta come «uomo» tanto per «abusare» di questa come di altre parole –, potrebbero recuperarsi sotto la impostazione di convenzione movimenti autentici e alfierianamente costitutivi: il motivo del paradosso sdegnoso di uomini-non uomini è fondamentale nella tematica alfieriana. Si poteva anche attender di piú quanto a precisazione di capacità costruttive del giovane scrittore (il gusto di sceneggiatura di cui io parlai per la terza sessione ecc.) al di là del suo stesso riconoscimento dell’importanza della sua operetta come prima prova del suo «saper mettere in carta» delle idee.

Gaetano Mariani, Elaborazione della prosa politica alfieriana, «Giornale Italiano di Filologia», IX (1956), 1, pp. 10-23; 2, pp. 133-157.

Il Mariani, cui si devono alcuni utili studi sulla elaborazione della prosa della Vita, presenta in questo saggio una indagine sull’elaborazione della prosa politica alfieriana, che si basa sul confronto degli abbozzi e delle stesure definitive dei trattati Della tirannide e Del principe e delle lettere secondo il testo datone dal Cazzani nei primo volume degli Scritti politici e morali dell’Alfieri (Asti, 1951). Premesso che il problema dell’elaborazione della prosa politica è diverso da quello della Vita, dato il carattere piú chiaro di abbozzo della prima stesura dei due trattati, e che una vera indagine stilistica sarebbe quindi lecita solo nelle parti in cui l’abbozzo offre già un pensiero ben definito (piú spesso si assiste quindi non al maturarsi, ma al nascere stesso dello stile), il Mariani studia il significato dei passaggi dall’abbozzo all’edizione seguendo i temi fondamentali dei due trattati: quello del tiranno e della tirannide, quello dell’ideale ricerca del libero scrittore, per poi raccogliere conclusive osservazioni sulla nuova articolazione di lingua e di stile nella redazione definitiva. Quanto al primo tema l’osservazione centrale verte sul progressivo arricchimento delle determinazioni, sulla universalizzazione delle idee sostenute, sulla crescente forza di trasformazione dei concetti in immagine, sulla intensificazione generale dei giudizi e della condanna della tirannide e dei «corpi» che la sostengono. Per il secondo si osserva l’accentuazione del contrasto fra principe e scrittore con la relativa accentuazione dell’esaltazione della potenza delle lettere e del loro primato rispetto alle scienze e alle arti figurative, e con una sempre piú energica esemplificazione appoggiata ad un giudizio sempre piú severo e politico. Quanto alle osservazioni conclusive e generali, lo studio insiste su di una maggiore felicità e forza di immagini (con l’abolizione viceversa di immagini troppo vistose e retoriche negli abbozzi), su di una maggiore capacità di espressione di intuizioni psicologiche, su di una piú abile graduazione nell’uso dell’aggettivo e nella nuova presenza di neologismi alfieriani, su di una generale articolazione piú energica e sicura sin nella punteggiatura. Quanto ai rapporti fra i due temi (e i due trattati che li svolgono), se comune si rileva una generale intensificazione (che tutto sommato io direi presente anche nell’elaborazione della poesia alfieriana e particolarmente delle Rime, nel cui processo elaborativo è visibile una ricerca di equilibrio in tensione, di intensificazione di ogni membro della costruzione), il M. osserva nel secondo un pericolo di diluizione e di amplificazione che disperde certa forza epigrafica originaria per maggiore chiarezza in un fraseggiare troppo fitto, e se comune e ai due trattati appare un maggior dominio della passione, sembra al M. che nella redazione definitiva si incontrino piú efficacemente e dialetticamente entro una salda architettura un tono passionale e un tono dimostrativo.

Lo studio notevole e ricco di buone osservazioni appare suscettibile di ulteriore meditazione e precisazione sia per quanto riguarda la storia di questa elaborazione in sé e per sé sia per i suoi rapporti con il generale svolgimento di idee e di poesia, di coscienza stilistica dell’Alfieri. Storia e rapporti non facili data anche la notevole apertura cronologica fra la prima redazione della Tirannide, ’77, l’inizio, nel ’78, del Del principe e delle lettere, e la continuazione di questo nell’81 fino all’86, anno in cui i due trattati vengono ripresi e riscritti. Donde la diversità di situazione dei due trattati non solo quanto a posizione del tema e a prima disposizione (piú passionale nel primo, piú ragionativo nel secondo, come li giudicò l’Alfieri sul manoscritto nell’86, vedendovi la diversità fra un’età giovanile e una maturità meno ardente), ma proprio quanto a maturazione e sviluppo di pensiero e di possesso artistico: su cui io penso si dovrebbe piú insistere, accertando piú integralmente il muoversi dell’animo alfieriano (con il crescere del pessimismo e il sintomatico infittirsi dei «purtroppo») e il maturarsi del suo stile in cui occorrerebbe anche misurare i rapporti con l’elaborazione coeva di tragedie e rime.

«La Rassegna della letteratura italiana», a. 62°, serie VII, n. 1, Firenze, gennaio-aprile 1958

Vittorio Alfieri, Le tragedie, a cura di Pietro Cazzani, Mondadori, Milano, 1957, pp. LVI-1372.

Questa nuova edizione delle tragedie alfieriane, che viene ad arricchire la bella collezione dei «Classici Mondadori», diretta dal Flora, offre il testo autorizzato dall’Alfieri nella Didot dell’87-89, discostandosi dalle edizioni del Bruscoli e dello Jannaco (ferma purtroppo alla Virginia) solo per quel che riguarda la punteggiatura e la grafia, semplificate e ammodernate dove ciò è apparso necessario per eliminare «una fatica e un fastidio eccessivi al lettore moderno» e ad un vasto pubblico non specialistico, a cui la collezione si rivolge. Criteri che il Cazzani aveva già ampiamente esposti nell’articolo Sopra un autografo alfieriano: la riforma teatrale e l’ortografia delle tragedie in «Convivium», da me schedato nel n. 3-4, 1955 di questa rivista, e che qui vengono riassunti e collegati con la indicata volontà di una «cauta modernizzazione»: eliminazione di usi settecenteschi o di errori dell’autore, o interpretazione di intenzioni polemiche ormai per noi non piú valide. Il che non toglie che (anche con l’ausilio indicativo del saggio del Cazzani sopra citato) lo studioso dell’Alfieri debba ancora rivolgersi alle edizioni piú conservative per recuperare interamente la precisa volontà dell’Alfieri che preparò il testo delle sue tragedie preoccupato anche, da vero poeta teatrale, di suggerire in ogni particolare una recitazione fedele delle sue opere in diretta relazione alle particolari condizioni degli attori del suo tempo.

L’edizione (che riporta anche gli abbozzi dell’incompiuta Carlo I, e delle tramelogedie Conte Ugolino e Scotta) è completata poi da un corredo di note che sinteticamente espongono la storia della elaborazione delle singole tragedie, i rapporti di queste con opere, miti, narrazioni storiche a cui l’Alfieri si riferí, e riportano le definizioni dei caratteri dei personaggi quali vennero date dall’Alfieri nel ms. 10 della Laurenziana.

Quanto all’introduzione, essa si presenta decisamente rivolta a sottolineare, come dice il suo titolo (Vocazione tragica di Vittorio Alfieri), la centrale natura tragica del poeta pur ponendola entro la «cornice» di prologo e commento della linea della poesia satirica alfieriana e sotto la spinta alimentatrice del contrasto vitale e dell’ansia morale dell’uomo resi poi espliciti interamente nella Vita. Le tragedie e il periodo dell’attività tragica, fra la Cleopatra e la edizione Didot, sono cosí posti al centro della vita e dell’arte alfieriana, come «espressione piena del suo animo», della sua aspirazione alla libertà nella sua complessa origine etico-politica e nel suo valore piú profondo e generale che renderebbe «tragedie di libertà» non solo quelle cosí chiamate dal poeta, ma tutte le sue tragedie, di cui poi il Cazzani rileva (anche con l’appoggio di sintomatici passi delle Rime) il finale moto di scontentezza dei personaggi tesi ad un’assoluta libertà, ma consapevoli della sua impossibilità, in un movimento profondo che supera effettivamente la pura dimensione politica e ha cause «ignote e perciò tanto piú terribili»: come viene documentato nei casi estremi del Saul e della Mirra (giustamente designata come «massima espressione della poesia alfieriana»), in cui si avverte anche il valore storico di una simile intuizione tragica. Motivi questi ultimi su cui io non posso che sostanzialmente convenire, data l’interpretazione che è alla base della mia Lettura della Mirra (n. l del 1957 di questa rivista), la quale poi riprende e sviluppa temi del mio volume Vita interiore dell’Alfieri (Bologna, 1942).

A questa ricostruzione della intuizione tragica alfieriana (che mi par piú felice ed evidente del primo capitolo sul «contenuto morale della satira: dal Jugement alla Finestrina») il Cazzani aggiunge un capitolo sullo «stile tragico», che offre alcuni accenni soprattutto utili ad impostare un inquadramento del teatro alfieriano nell’aspirazione tragica del Settecento, spesso meno calcolato dalla critica (e da tal punto di vista considererei molto importante la prova della Merope in confronto con la Merope maffeiana), e sulla riforma teatrale dell’Alfieri, sulle sue molto precise preoccupazioni teatrali, la cui identificazione porta il Cazzani a collegare l’Alfieri ancor piú che a quelle dei «letterati» alle esigenze degli uomini di teatro come il Riccoboni (su cui utilissimo è il saggio di C. Varese, Luigi Riccoboni: un attore tra letteratura e teatro, schedato nel n. 1, 1958 della «Rassegna») e cioè ad un aspetto piú tecnico, concreto, meno libresco, della esperienza e della aspirazione settecentesca ad una nuova tragedia italiana.

E se il titolo del capitolo sembrerebbe impegnare l’autore anche ad una definizione piú precisa e particolareggiata dello stile tragico alfieriano, le considerazioni sulle precise condizioni tragico-teatrali della tecnica e del verso alfieriano mi sembrano, tutto sommato, un’offerta assai interessante, piú interessante di qualche possibile illustrazione strettamente stilistica della poesia alfieriana, che comunque dovrà sempre concretamente incentrarsi nel riconoscimento della poetica «tragica» alfieriana e nel suo storico, dinamico sviluppo entro la storia di tutto l’Alfieri, della sua cultura, della sua profonda e sofferta esperienza vitale etico-politica e poetica: una storia in cui i suoi nuclei poetici verrebbero poi a prendere tanto maggiore evidenza e tanto piú ricca complessità di particolari e successive determinazioni.

«La Rassegna della letteratura italiana», a. 62°, serie VII, n. 3, Firenze, settembre-dicembre 1958

Pietro Mazzamuto, Proposte sull’Alfieri, Palumbo, Palermo, 1957, pp. 83.

Si tratta in verità di «proposte» piú volenterose che convincenti, sostenute oltre tutto da una certa mescolanza di procedimenti critici poco assimilati e frettolosamente esercitati cosí come le tesi critiche appaiono poco meditate e verificate anche quando alcuni loro elementi possono presentare una ulteriore utilizzabilità. Parlo in questo caso del primo saggio, che intende studiare la genesi del Saul e l’importanza che in questa avrebbe avuto la presenza dell’Oedipus e dell’Hercules furens di Seneca. Orbene questo che può essere un legittimo e assai interessante rilievo di testi tragici presenti alla memoria creatrice dell’Alfieri come stimoli e suggerimenti nella creazione della propria tragedia (il che non esclude poi l’importanza fondamentale della lettura biblica cosí ricca di spunti e di offerte alla fantasia alfieriana e certamente essenziale ad agevolare il poeta nella nuova incarnazione del limite ostile di una realtà oscura e tirannica nella crudele divinità ebraica), viene troppo forzato fino all’ipotesi di una totale identificazione della genesi del Saul con una genesi tutta senechiana e fino alla postulazione (anche metodologicamente poco chiara) della necessità «di un adeguato schermo letterario a sottendere l’esperienza autobiografica alfieriana». Le tragedie senechiane divengono addirittura la «falsariga stilistica» del Saul e la tecnica alfieriana in quella tragedia si riduce a «un libero ricalco».

Ma certo ancor piú inaccettabile è la proposta di interpretare le Rime come ispirate al gusto «neoclassico» e ad una «poetica dell’armonia»; dove gli studi di poetica vengono ripresi in una versione, arbitraria e falsamente storicistica, che accumula inutilmente citazioni di poeti neoclassici e di princípi neoclassici in maniera tutta esterna rispetto alla vera realtà e alla direzione di poetica delle Rime alfieriane. Senza poi una distinzione in seno al neoclassicismo di tendenze che avrebbero almen reso meno improprio l’accostamento di aspetti marginali delle Rime alfieriane a diversi aspetti della poetica neoclassica. E senza una vera distinzione nello sviluppo delle Rime, che solo all’inizio presentano sonetti «pittorici» e galanti piú vicini a forme classicistiche settecentesche (e non però veramente «neoclassiche») e che quanto piú si fanno personali e mature tanto piú chiaramente corrispondono ad una poetica chiaramente preromantica, di tensione, di articolazione dinamica e drammatica, fino a cogliere rari momenti di superiore serenità (il sonetto a Marina di Pisa) solo sull’eccitazione sentimentale e sullo stimolo di un paesaggio tempestoso romanticissimo. Poetica della «bellezza ideale”, dell’edle Einfalt und stille Grösse? E infatti a un certo punto (p. 68) il M. deve pur ammettere: «le rime per la Stolberg non rivelano di certo il decisivo impianto neoclassico dei versi che abbiamo sin qui esaminato». Ma quei versi erano appunto versi dei sonetti galanti-pittorici del ’76 e le rime per la Stolberg (specie nei loro cicli piú alti in cui l’amore funziona come lontananza che eccita l’animo poetico a intensi moti drammatici e pessimistici) sono nient’altro che le vere rime. Che poi il preromanticismo alfieriano sia intriso di elementi neoclassici è altro discorso e che ideali di saggezza, armonia ecc. si presentino entro un tono piú pacato nelle rime ultime è discorso da tenere in ben piú complessa maniera; ma far delle rime un frutto di poetica «neoclassica» (se si vuol pur dare a parole per quanto approssimative un centro di identità) è praticamente sbagliato. Assai strano l’errore di p. 48. La prova della consapevolezza, anche se non filosofica, che l’Alfieri avrebbe avuto sin da ragazzo della «bellezza ideale» sarebbe il fascino avvertito nel leggere il canto di Alcina, quando «a quei bellissimi passi che descrivono la di lei bellezza» si faceva «tutto intelletto per capir bene». Ma il ragazzo si faceva tutto intelletto per capir bene ciò che la sua esperienza non gli aveva ancora insegnato, come chiarisce poi l’accenno alla celebre strofa Non cosí strettamente edera preme e ai due ultimi versi di questa, non molto attinenti, per verità, al tema della «bellezza ideale».

«La Rassegna della letteratura italiana», a. 63°, serie VII, n. 2, Firenze, maggio-agosto 1959

Lanfranco Caretti, Le carte alfieriane della raccolta Cora, Istituto di letteratura italiana, Università di Pavia, 1960, pp. 67.

In attesa della ormai prossima pubblicazione dell’epistolario alfieriano curato dal Caretti per l’edizione della Casa d’Alfieri di Asti, accogliamo con molto piacere questa raccolta e catalogo delle carte alfieriane prima in possesso dei marchesi Colli di Felizzano, poi di Luigi Cora, il cui figlio Galeazzo ha voluto cosí realizzare il desiderio del padre, ammiratore dell’Alfieri e delle sue opere. Oltre al catalogo delle cinquantasette lettere autografe dell’Alfieri alla sorella, che il Caretti pubblicò già nel suo volume Studi e ricerche di letteratura italiana, Firenze, 1951, il volumetto (che esce in edizione numerata e non venale) raccoglie ventiquattro lettere dirette al cognato, conte di Cumiana, dieci ricevute inviate alla sorella e relative al pagamento della pensione (piú una dichiarazione d’obbligo a favore della madre di un cameriere e un’istruzione per un cameriere), cinque lettere di Elia ai conti di Cumiana, il catalogo, ragionato ed episodicamente illustrato, di diciotto lettere della d’Albany al marchese Colli-Ricci e di quindici documenti, tredici dei quali sono copie di lettere della sorella e del cognato all’Alfieri.

L’interesse vero della pubblicazione risiede naturalmente nell’offerta di testi inediti o restaurati: e cioè, fra le lettere al cognato, quattordici di esse, e le cinque lettere-rapporti di Elia. Le prime lumeggiano particolari della difficile e controversa storia della «donazione» fatta per «essere libero della mia persona e sicuro». Ma piú interessano due lettere da Berlino e da Madrid del ’69 e del ’71 per accenni illuminanti su certi atteggiamenti del giovane Alfieri nel periodo dei viaggi europei. Come il ribadito giudizio di insofferenza per la Germania «c’est de tous les pays de l’Europe le moins curieux à voir, et on s’ennuye bientôst de ne voir que des gueux et des soldats»); la dichiarazione di simpatia per l’Inghilterra: «dans ce trouble de voyage je regrette deux choses: la tranquillité de Cumiana et de l’Angleterre, celleci j’espère de la revoir avant mon retour, dans l’autre j’espère d’y finir mes jours»); e la denuncia di una finale stanchezza dei viaggi che sembrerebbe convalidare in parte, con qualche venatura di snobismo, l’interpretazione negativa della satira IX: «je me porte fort bien, mais je donne au diable les voyages; et si ce n’estoit par respect humain, je serois déja a Turin; mais je me sui fait la pillule, il faut l’avaler!»).

Quelle di Elia, confidente segreto dei conti di Cumiana che desideravano essere minutamente informati sulle mosse del giovane ed estroso parente, sono importantissime, specie quelle inglesi, per le informazioni sulla biografia alfieriana e confermano sostanzialmente la «veridicità» della narrazione della Vita circa i particolari del viaggio in Finlandia e le vicende del duello e dell’orribile disinganno londinese. Direi di piú: la lettera da Pietroburgo e le due lettere inglesi, e specie la prima, sono documenti formidabili di scorci alfieriani entro pagine rozze, ma cosí schiette e sinceramente animate dal ritmo della vicenda e dall’interesse che essa ha suscitato in questo cameriere d’eccezione alle prese con la penna. Da tal punto di vista sottolineerei come impagabile commento alla narrazione alfieriana del viaggio fra i ghiacci la pagina di Elia, con in piú il particolare, lasciato cadere dal poeta nel suo individualistico rilievo, e pur cosí singolare, del cameriere che suona il violino mentre il padrone rema furiosamente: «… si è impiegato il tempo a passeggiare sopra il mare e vedere isole deserte, che la prima passeggiata che fece l’à fatta solo sopra una picola barca, che traversò un golfo e quando fu di là lasiò indare la barca, e restò in un’isola deserta e dove a forsa di cridare si fece sentire, e si acorse con altra barca a prenderlo, e duopo mi fece montare io con luj con il violino, e luj remava ed io sonavo; e puoj presi ancor io un remo, ed abiamo fatto piú miglia per indare in una picola isola deserta, dove mi fece ancora suonare molto il violino, e faceva belissimo tempo, che in diffetto di questo nonso come se ne saresimo tirati noj due soli a remare, che sul principio indava molto male; e siamo arrivatti a casa che le ortiche sono state buonissime per il grande apetitto che aveva il mio padrone».

«La Rassegna della letteratura italiana», a. 64°, serie VII, n. 1, Firenze, gennaio-aprile 1960.

Mario Baratto, Tyrannie et liberté dans la tragédie de Alfieri. Le théâtre tragique, éditions du centre national de la recherche scientifique, Paris, 1962, pp. 297-313.

Il Baratto, noto già per i suoi saggi su autori teatrali (Ruzzante, Goldoni, Pirandello), si applica in questo saggio al teatro alfieriano di cui cerca di individuare attraverso l’analisi di alcune tragedie sintomatiche (Filippo, Polinice, Antigone, Virginia, Timoleone, Congiura dei Pazzi, Agamennone, Saul e Mirra) l’essenziale conflitto personale e storico: il conflitto tragico e insolubile fra tiranno e tirannia, il conflitto fra la celebrazione della libertà e l’universalizzazione del suo contrario. Ciò viene precisato nel Filippo, di fronte al quale la storia successiva della tragedia alfieriana propone sviluppi, aggiustamenti, contraccolpi, diversioni; la coincidenza esistenziale fra trono e tiranno nel Polinice, la proposta dell’eroe, vittima consapevole nell’Antigone, la nuova presenza-assenza del popolo nella Virginia (tragedia ambigua e complessa piú di quanto solitamente si creda), il nuovo riavvicinamento dell’eroe di libertà e del tiranno nello slancio di potenza vitale che li caratterizza ambedue (Timoleone). Donde, al centro dell’esperienza di questo aristocratico ribelle, una esaltazione dell’individuo, solo con una passione e in conflitto con l’universo, che apre una nuova sensibilità spostata in avanti rispetto a quella del secolo successivo. Esaltazione che supera il tema politico (fra Congiura dei Pazzi, Rosmunda e Oreste) e che contiene un’intima debolezza: ché gli altri, il mondo comune mantengono delle costanti positive e l’eroe giunge, con Saul e Mirra, ad una coscienza tragica e ad una catarsi, nel suicidio, della sua falsa nozione di libertà, della sua passione incapace di concretizzarsi e operare nella storia. Cosí il conflitto fra tirannia e libertà è ricondotto nell’interno dei personaggi come elemento originario di una contraddizione morale e psicologica che bisogna affrontare e risolvere. Si tratta di brevi e dense pagine assai interessanti e che chiederebbero una discussione minuta e ricondotta all’analisi delle singole tragedie utilizzate; per esempio il caso della Virginia che mi par caricata di un significato maggiore del reale o il caso di Saul per il quale la piú terribil fonte della sua sventura mal può risolversi solo nella incapacità del personaggio ad accettare la sua mortalità e non nella «terribil ira» di Dio.

E alla fine mi sembra che da questa prospettiva nasca un pericolo e una contraddizione: quella di proiettare Alfieri al di là del romanticismo (con un rischio simile alla nota tesi del Calosso) e quella viceversa di vedere il teatro alfieriano solo nella storia teatrale come anticipo dell’opera verdiana, eliminando, nella nostra storia, un piú forte rapporto fra l’Alfieri e il Foscolo e soprattutto il Leopardi.

Ma, ripeto, si tratta di un saggio assai vivo e comunque nato da un interesse vero per una profonda poesia che è grave errore non riconoscere, come invece a volte accade di dover sentire anche da parte di lettori moderni, ma fermi ad una immagine retorica, e perciò rifiutata, del grande poeta preromantico.

Riccardo Scrivano, La natura teatrale dell’ispirazione alfieriana e altri scritti alfieriani, Milano-Messina, Principato, 1962, pp. 314.

Il volume comprende sette saggi che riguardano momenti e aspetti diversi dell’attività letteraria dell’A.: le tragedie, il «Parere» che concluse l’edizione parigina delle tragedie nell’89, la Vita, le commedie. Al centro è il saggio che dà il titolo al volume: in esso viene sottolineata la condizione essenzialmente teatrale nella quale nascono le figure tragiche alfieriane, non solo perché rappresentano spesso uno stato interiore di contrasto, o di «perplessità», come diceva l’A. per Saul, ma perché è nel rapporto con le altre figure (Antigone-Creonte, ad esempio) o con gruppi perfino di altre figure (Mirra-corte di Cipro) che si definiscono nella loro sostanza drammatica. Una vera comprensione dell’opera tragica alfieriana non si ha pertanto ove si prescinda dalle dimensioni teatrali in cui il poeta la pensò ed elaborò: è sulla base di questa linea direttiva che s’imposta anche il saggio, Lo svolgimento delle tragedie, che mira a segnare le successive tappe dell’opera tragica alfieriana coi suoi nuclei ispirativi, le complesse elaborazioni, gli assestamenti, le acquisizioni letterarie, le spinte polemiche che la nutrirono. Un esame particolareggiato dell’insieme di questi elementi nella prospettiva costante di quella sostanza teatrale dell’ispirazione alfieriana viene poi condotto per il Saul, mentre una presentazione della tarda tragedia dedicata a Bruto minore permette allo S. di tornare sul tema del rapporto politica-tragedia nell’A., al fine di indicare come la tensione politica alfieriana sia solo una delle componenti della sua ispirazione e come tale collabori a determinare la visione generale delle cose propria del poeta.

Il saggio sull’A. critico di se stesso vuole essere un esame della consapevolezza artistica dell’A, e pertanto un contributo, da un particolare punto di vista e condotto su di un materiale che per l’A. costituiva soprattutto un mezzo per illuminare lettori ed attori sulle sue opere, alla poetica alfieriana. Che, anche nei suoi tardi sviluppi, nei suoi svolgimenti ormai privi di poesia, ma non per questo privi di rilievo storico e culturale, resta ancora il punto di vista e il tema essenziale dei saggi conclusivi sulla Vita e sulle commedie.

Nel suo insieme il volume si presenta organico e fortemente penetrante: senz’altro uno dei contributi piú importanti alla interpretazione critica del grande poeta preromantico.

«La Rassegna della letteratura italiana», a. 68°, serie VII, n. 2-3, Firenze, maggio-dicembre 1964

Vittorio Alfieri, Opere, introduzione e scelta a cura di Vittore Branca, Milano, Mursia, 1965, pp. XXX-1275.

Questa nuova raccolta di opere alfieriane (con brevi note, a cura del Branca per la Vita e le Rime, a cura di Giancarlo Guerra per le altre opere), contiene la Vita, il Filippo, il Polinice, l’Antigone, la Virginia, l’Agamennone, l’Oreste, l’Ottavia, il Don Garzia, il Saul, la Mirra, il Bruto Secondo, il trattato Del Principe e delle lettere, La virtú sconosciuta, due satire (I viaggi, L’educazione), la Finestrina, una scelta delle Rime, e alcuni documenti minori (Giornali, Annali, Prefazione alle chiacchiere). Raccolta assai vasta, anche se può dispiacere l’assenza almeno della Congiura dei Pazzi e del trattato Della tirannide.

La scelta è introdotta da un saggio del Branca che si conclude con una bibliografia ragionata e, rapidamente ripercorrendo la vicenda umana-artistica dell’Alfieri, tende a precisare le condizioni delle sue convinzioni estetico-poetiche («tra i chiaroscuri del “furore” secentesco e una concezione tipicamente razionalistica della poesia», «fra razionalismo e neoclassicismo», non senza ascendenze barocche, fra «furore e colorito secenteschi e lima e giudizio – cioè ragione – settecenteschi»), ricavandone poi una diagnosi coerente della poetica attiva delle rime e delle tragedie dell’Alfieri che trascende «risolutamente la tradizione culturale del suo tempo» «non perché romantico o protoromantico, ma per il suo potente e prepotente temperamento poetico», per la esigenza «sempre esasperata» della sua personalità. Infine l’introduzione mostra l’essenziale esperienza delle rime nella formazione ed espressione delle tragedie e «il processo circolare dalla lirica alla tragedia e dalla tragedia alla lirica».

Il saggio ha certo un suo impegno notevole e un andamento tutt’altro che convenzionale, come certo è accettabile il forte ricambio rime-tragedie. Naturalmente, dal mio punto di vista, appaiono esagerati la componente secentesca e lo scarto cosí risoluto dell’elemento storico preromantico sostituito solo da un carattere del temperamento poetico alfieriano senza le sue radici in una crisi culturale, storica, letteraria.

E può essere indicativo, in tal senso, che in tale proposta critica, pur interessante e decisa, manchi una vera considerazione delle prospettive etico-politiche alfieriane (e magari lo stesso scarto, nell’antologia, del trattato Della tirannide).

Angelo Fabrizi, Studi inediti di Vittorio Alfieri sull’«Ossian» del Cesarotti, Centro Nazionale di Studi Alfieriani, Asti, 1964, pp. 71.

È uno studio minuto e accurato degli inediti Estratti d’Ossian per la tragica del ms. Laurenziano «Alfieri» 15. Tenuto conto anche delle postille alfieriane alla copia dell’Ossian posseduta dall’Alfieri (e ora nella biblioteca di Montpellier: la seconda edizione italiana del 1772, base dello studio alfieriano ben piú della copia inglese pure posseduta dall’Alfieri), e rilevato il grande interesse alfieriano per quell’insigne documento del gusto preromantico, il Fabrizi esamina attentamente la riduzione in forma drammatica, da parte dell’Alfieri, di tredici poemetti ossianeschi (10797 versi dell’originale ridotti a 5000), attuata eliminando le parti narrative, le similitudini, le descrizioni, le perifrasi, i passi troppo elegiaci e sentimentalmente lirici, e lavorando spesso sul linguaggio cesarottiano piú effusivo o vago-leggiadro, in direzione di forme piú concise (e dunque – contro l’affermazione del Mazzoni – mutando anche molti dei versi ripresi dall’originale negli Estratti) e secondo un gusto piú nativamente tragico e, a suo modo, piú classico. Studia poi le «soprallineature» di parole e di intere espressioni ossianesche negli Estratti che poterono colpire in varia maniera l’Alfieri e che a volte ritornano in battute delle tragedie (specie nel Saul) o dell’Etruria vendicata. Piú rapido e meno approfondito è il finale accenno alle ragioni del generale fascino ossianesco per l’Alfieri che ricondurrebbe, al di là della verifica attenta degli Estratti, a una piú complessa indagine sullo stesso preromanticismo alfieriano.

«La Rassegna della letteratura italiana», a. 69°, serie VII, n. 2, Firenze, maggio-settembre 1965

Vittorio Alfieri, Agamennone, a c. di Carmine Jannaco e di Raffaele De Bello, Asti, Casa di Alfieri, 1967, pp. 277.

Riprendo con questa scheda a dar notizia dei numerosi volumi che son venuti arricchendo la monumentale e benemerita edizione astese delle opere alfieriane, base fondamentale per una ripresa degli studi critici alfieriani in direzione di nuovi approfondimenti e ricerche sul tormentato e imponente lavoro stilistico-poetico del grande poeta preromantico e – attraverso tali approfondimenti – in direzione di nuove intere interpretazioni dell’opera e della personalità storico-poetica dell’Alfieri. Per stare al presente volume che (introdotto da una brevissima nota informativa, vòlta a precisare i dati cronologici dell’iter costruttivo-elaborativo della tragedia fra l’idea del 19 maggio 1776 e l’edizione Didot dell’89: vi sono però anche utili accenni al rapporto dell’Alfieri con il Thiestes senechiano in base all’esistenza di estratti, postille, traduzioni di drammi senechiani valevoli non solo per l’Agamennone, ma anche per il Polinice, l’Antigone, l’Oreste e l’Ottavia, e che saranno a suo tempo pubblicati nell’edizione astese) offre un’accuratissima edizione dei vari testi (testo definitivo Didot, idea, stesura, complesse revisioni di ambedue, prima versificazione del ’78, seconda versificazione dell’81, e, in calce alle due versificazioni a fronte, le varianti della seconda versificazione corretta, della copia ambrosiana, della prima edizione senese, della stessa corretta, della copia Polidori, della stessa corretta), si pensi a quanto una simile offerta dei materiali testuali può rappresentare per una ricostruzione critica impegnativa di questa importantissima tragedia, che tanto (a cominciare dal parere alfieriano puntato sulla distinzione fra l’eccellenza tecnico-teatrale e una certa svalutazione dell’argomento poco «nobile» e tragico) ha impegnato la critica, con sbalzi di giudizio che giungono all’estrema qualifica calossiana della tragedia meno «alfieriana» e piú borghese del grande poeta, trovano una piú graduata misura (non priva di difficoltà) entro lo sviluppo alfieriano quale fu tracciato dal Fubini, ma possono anche risolversi, se non in una apologetica valutazione di assoluta eccellenza e maturità (si pensi comunque al giudizio cosí alto del Momigliano), certo nel circostanziato rilievo di un acquisto eccezionale (soprattutto rispetto alle prime tragedie, anche se rimesso in giuoco nelle varie forme di quelle successive fino alla vera maturità e superiorità assoluta attinta fra Saul e Mirra) di capacità di fusione, graduazione teatrale e poetica, non prive però di una profonda, autentica pressione tragica, verificabile sia nella possente maturazione dell’azione-delitto (come vide appunto il Momigliano) sia nella vibrazione intensa dei vari personaggi, a volte negata da certi critici (il caso anzitutto di Agamennone, troppo risolto spesso, sulla scorta del parere alfieriano, in forme di un «marito tradito», debole e troppo bonario, passibile di qualche rilievo di ridicolo, e invece – si pensi alla grande scena del suo ritorno in Argo – estremamente tormentato, angosciato, inquieto anche nell’espansione eccessiva della sua autoassicurazione di pace e di felicità riconquistata), sia nell’eccezionale sigla del finale profondamente pessimistico-tragico in cui convergono – intorno al delitto che non trova intera conclusione, foriero di altri orribili delitti – le delusioni possenti di tutti e quattro i personaggi: da Agamennone che aveva presentito la sua tragica sorte, ma non la «mano» da cui egli sarebbe stato ucciso, ad Egisto (certo il piú scoperto e non privo di tracce piú schematiche) che si vede sfuggire il piccolo Oreste (donde l’incompiutezza della sua azione), ad Elettra che verifica lo scacco tremendo della sua azione intesa a salvare insieme padre e madre, a Clitennestra che piú profondamente rivela il ribaltamento da eccitazione attiva-delittuosa, mossa alla ricerca di una sua assurda felicità, a delusione inorridita nel riconoscimento dell’innocenza del marito ucciso e della scelleratezza dell’amante. Accenni questi del tutto insufficienti a una direzione di interpretazione e valutazione che potrà giovarsi appunto, nella sua concreta e intera immagine di questa grande tragedia poetica e teatrale, dello studio attento dell’elaborazione del testo (priva sí, come appare a una prima verifica, delle svolte profonde che subirono durante la loro elaborazione soprattutto le due prime tragedie e l’Antigone, ma continuamente sollecitata da approfondimenti tecnico-teatrali e stilistico-drammatici), anche tenendo conto dei lunghi intervalli fra idea, stesura, versificazioni, corrispondenti a importanti scadenze dell’intero sviluppo e della maturazione della personalità poetica alfieriana.

Vittorio Alfieri, Scritti politici e morali, II, a c. di Pietro Cazzani, Asti, Casa di Alfieri, 1966, pp. XXXIII-284.

Il presente volume raccoglie i testi definitivi criticamente accertati e le prime redazioni del poemetto l’Etruria vendicata, delle cinque Odi L’America libera, dell’ode Parigi sbastigliato e della breve favola, pure in versi, Le mosche e le api: e dunque la parte in versi del corpus degli scritti che possono latamente definirsi «politici e morali» (nel primo volume erano comprese le opere di tal genere in prosa: Tirannide, Del principe e delle lettere, Panegirico di Plinio a Traiano, Dialogo della virtú sconosciuta).

Particolarmente importante appare l’edizione critica dell’Etruria vendicata (e piú marginalmente quella della favoletta che non aveva mai avuto edizione critica) dato che per l’America libera e il Parigi sbastigliato già nell’edizione delle Rime curata dal Maggini si era in possesso di una edizione critica molto accurata. Utilissima è la riproduzione integrale degli autografi ai fini dello studio del lavoro alfieriano di elaborazione stilistica (scopo ben presente al Cazzani nella sua introduzione, e forse alla fine sin eccessivamente rilevato rispetto al fondamentale scopo di uno studio integrale dello sviluppo della poetica alfieriana nelle sue componenti ideologiche e storico-etico-politiche particolarmente essenziali, specie nella direzione di questi scritti) e della loro lunga e interrotta composizione durante anni «drammatici» per la lontananza forzata della donna amata su cui a volte il Cazzani sembra troppo insistere – il caso dell’Etruria vendicata – nella considerazione di elementi biografico-sentimentali, importanti anch’essi, ma non unici certo nella stessa tormentosa composizione del poemetto (paragonata dal Cazzani a quella singolarmente complessa del Filippo), fra la difficoltà dell’«agrodolce terribile» cui l’Alfieri aspirava e la difficoltà della sua stessa problematica etico-politica. Comunque la stessa introduzione appare ben meritoria, sia per le ipotesi e le prove relative alla cronologia della composizione e pubblicazione di queste opere sia per i rilievi sul diverso grado di elaborazione di queste opere (estremo quello dell’Etruria, molto minore quello degli altri componimenti). In vista di nuovi studi su queste opere rinvio, per quanto riguarda l’America libera e l’Etruria vendicata, alle pagine del mio saggio Il periodo romano dell’Alfieri e la Merope, in Saggi alfieriani, Firenze, Nuova Italia, 1969, pp. 42-52.

Vittorio Alfieri, Oreste, a c. di Raffaele De Bello, Asti, Casa di Alfieri, 1967, pp. 333.

All’edizione del testo definitivo, dell’idea (1776), stesura (1777), prima (1778) e seconda versificazione (1781) (con in nota le varianti di copie e stampe), è premessa al solito una breve introduzione che utilmente indaga soprattutto sulla particolare condizione della ideazione della tragedia. In rapporto alla contemporanea e piú faticosa ideazione dell’Agamennone, l’ideazione dell’Oreste appare inizialmente rapida e spedita concentrandosi sulla costruzione del personaggio di Oreste (il solo nuovo rispetto ai personaggi dell’Agamennone e della struttura scenica della favola). Poi l’idea fu ripresa e ampliata intorno alla figura di Clitennestra, concepita prima come personaggio di secondo piano (rispetto al motivo centrale della furia vendicatrice di Oreste) e poi (per tutto il lavoro di attuazione della tragedia) ripresa e arricchita nel suo doppio dramma di moglie e madre (forse anche sull’iniziale, ma non essenziale, stimolo di una lettera del Lampredi), mentre lo stesso scioglimento dell’azione è cambiato già nella ripresa e nuova scrittura dell’idea: prima consisteva nella morte di Clitennestra, che questa incontrava per mano, consapevole, del figlio, mentre tentava di difendere Egisto, poi si sistemava (con minore innovazione rispetto alla tradizione orestea, ma certo con maggiori possibilità poetiche intorno alla furia cieca e «fatale» di Oreste) nella forma definitiva. Rimane agli studiosi di questa tragedia il compito di realizzare, al di là di questo primo scandaglio sulla ideazione della tragedia, e al di là di piú schematiche indicazioni del curatore circa il lavoro successivo, le offerte dei testi per una intera ricostruzione dinamica della elaborazione dell’Oreste (da cui certo potranno prender maggiore validità anche osservazioni già a volte affacciate dalla critica circa le difficoltà di questa tragedia anche in rapporto all’Agamennone e alla sua diversa armonica misura).

Vittorio Alfieri, Congiura de’ Pazzi, a c. di Lovanio Rossi, Asti, Casa di Alfieri, 1968, pp. 311.

L’edizione di questa «tragedia di libertà» (a mio avviso la piú intensa, poetica, «alfieriana» delle «tragedie di libertà», come ho mostrato nel saggio Il finale della «Tirannide» e le tragedie di libertà, in Saggi alfieriani, già citati in queste schede) riporta, dopo il testo critico, l’idea (1777), la stesura (1778), la prima (1780) e la seconda versificazione (1781) e le varianti delle revisioni e stampe fino al testo della Didot. La brevissima introduzione dà notizia del percorso esterno di tale lungo lavoro, con qualche osservazione specie sulle modifiche già nell’idea e sulla riduzione dei «modi discorsivi» nel passaggio alla seconda versificazione.

Al di là di tali osservazioni sul complesso lavoro di conquista e intensificazione espressiva potrebbe aprirsi un lungo discorso: basti qui notare come di quel lavoro può essere spia significativa almeno il punto delicatissimo dell’ultima battuta di Raimondo ferito a morte (vera poetica conclusione eroica pessimistica della tragedia). Nella stesura tutta la complessa espressione di una verità pessimistica tremenda (il successo decreta chi è il giusto e chi è il traditore) è raccolta (sollecitata dalle grida del popolo) nella battuta di Francesco (poi Raimondo): «Che sento? muora il traditore? il traditore chi sarà? il meno felice». Poi nella prima versificazione essa viene divisa fra la voce di Bianca e quella di Raimondo: «Bianca: Che ascolto? – Mora, sí mora il traditor? Raimondo: Chi fia – il traditor? il men felice. Oh vista!» Mentre nella seconda versificazione la parte di Bianca assorbe anche la domanda sulla identità del traditore: «Bianca: Che ascolto? – Al traditore? al traditor. S’uccida? ... – Il traditor qual fia? Raimondo: Quei che è perdente». Infine (attraverso il suggerimento della copia Polidori corretta dall’autore, in cui compare la parola il «vinto»), nel testo definitivo l’espressione cosí importante (chiave del pessimismo eroico alfieriano) trova il suo consolidamento immutabile, la sua vibrazione energica in ogni particolare (fino alla scansione pausata delle decisive parole di Raimondo, che persino con l’uso della virgola fa vibrare e campeggiare inizialmente la parola della voce popolare – il traditore – bisognosa di sanzionare la sconfitta con la designazione di un’infamia). «Bianca: Che mai farò? ... Presso a chi star?... Che ascolto? – Al traditore, al traditor; si uccida – Qual traditore? ... Raimondo: Il traditor ... fia ... il vinto». Scartato il dilemma delle due versificazioni (la prima affidava in forma di domanda e risposta tutta la riflessione-espressione a Raimondo; la seconda divideva eccessivamente fra Bianca e Raimondo domanda e risposta e dava alla risposta di Raimondo un’eccessiva e compatta immediatezza sentenziosa), superata la debolezza della espressione decisiva («il men felice» «quei ch’è perdente»), il suggello della poesia (e, si badi bene, poesia teatrale con tutta la sua forza espansiva di parola-azione, espressiva-impressiva, scatenatrice di collaborazione intensa dell’ascoltatore) viene a realizzare perfettamente questo momento altissimo e decisivo, fondamentale per la nostra comprensione di tutta la visione poetico-politica-esistenziale alfieriana.

Vittorio Alfieri, Merope, a c. di Angelo Fabrizi, Asti, Casa di Alfieri, 1968, pp. XVIII-199.

Anche questo volume della edizione astese delle opere alfieriane si raccomanda per la cura dell’edizione critica che – mentre ripresenta in forma sicura il testo definitivo (secondo l’edizione Didot con la correzione rappresentata da quattro «cartolini» aggiunti dopo la stampa) con qualche, seppur minimo, ripristino dell’edizione Didot, rispetto alle edizioni critiche precedenti – offre agli studiosi alfieriani il prezioso ausilio del testo di «idea», «stesura», «versificazione» della Merope con in nota le varianti dei successivi stadi della sua elaborazione (versificazione corretta dall’autore, Copia Ambrosiana, Prima edizione senese, corretta dall’autore, copia Polidori, in preparazione diretta dell’edizione definitiva Didot, che pur ha ritocchi rispetto a quella copia in relazione alle correzioni delle bozze non conservate). Anche per la Merope cosí gli studiosi hanno a disposizione il materiale necessario per quello studio della formazione della tragedia alfieriana che ancora attende una ben auspicabile realizzazione storico-critica, sia per quanto riguarda singole tragedie, sia, e piú, per quanto riguarda la generale storia del teatro, dell’intera esplicazione artistica della personalità alfieriana. Per quanto riguarda la Merope, la Nota del curatore offre alcune osservazioni generali: la mancanza di «modificazioni di rilievo alla struttura della tragedia» nei passaggi fra idea, stesura, versificazione (la cui «struttura complessiva e la proporzione interna delle scene ed atti» è già lasciata «intravedere di lontano» dalla stesura), la ricerca alfieriana di «rendere piú concitato il dialogo abbreviando battute ritenute troppo lunghe e frantumandole in piú battute brevi» avvertibile nelle note e negli autosuggerimenti del poeta presenti nella revisione operata dall’Alfieri sulla versificazione e poi realizzati, in gran parte, nel manoscritto ambrosiano; la cura del poeta, nel corso del suo lavoro intorno al carattere dei personaggi «nel loro svelarsi nell’azione tragica»: tema intorno a cui il Fabrizi porta maggior numero di esempi sintomatici circa la crescente «machiavellica prudenza» di Polifonte – e in parte di Polidoro – circa la crescente drammatizzazione e complessità di Egisto – (secondo due direzioni complementari e nel tempo stesso originanti patetica dualità di atteggiamento: alta coscienza di sé, estrema delicatezza di affetti) – circa la «tipica contraddittorietà» di Merope. Ovviamente si tratta solo di rilievi che richiedono verifica e sviluppo in tutta la dimensione correlata e unitaria dell’azione, dei personaggi, del linguaggio tragico di cui (sulla base di studi e analisi come il capitolo della monografia fubiniana e il mio saggio in Saggi alfieriani, già citati) essenziale è la prospettiva di poetica di una tragedia nata fra impegno di gara con la Merope del Maffei (fra lo sdegno, ricordato dal Fabrizi, per l’eccessivo valore attribuito dal Settecento alla tragedia maffeiana, e indubbie utilizzazioni – da me sottolineate nel saggio ricordato – di un testo della letteratura arcadico-razionalistica per modi di linguaggio e di prospettiva di caratteri che non rimasero senza esito specie, ma non solo, nel profilarsi di quel «mondo minore» che avrà tanta parte nella dinamica e dialettica del Saul e della Mirra) e una minore, ma non trascurabile, vena ispirativa di tono patetico, specie nella figura materna di Merope, entro quel tono generale di «alfierizzazione», rispetto alla tragedia maffeiana, che già fu colto con forza dal Fubini.

Morena Pagliai, Alfieri, Cesarotti e la «Congiura de’ Pazzi». «Atti e memorie dell’Accademia toscana di Scienze e Lettere la Colombaria», XXXVI (1971), pp. 233-264.

Il saggio parte da una discussione sulla lettera che il Cesarotti scrisse all’Alfieri a proposito della Congiura de’ Pazzi: circa questa lettera, pubblicata per la prima volta dal Milanesi con la data 19 settembre 1785 (e che l’Alfieri disse al Cesarotti – in una lettera del 30 marzo 1785 – di non aver mai ricevuto), la Pagliai propone, con vari argomenti, che essa debba risalire invece al 19 settembre 1783 e che nella lettera del 30 marzo 1785 l’Alfieri abbia mentito, non avendo «alcuna intenzione di discutere col traduttore di Ossian il contenuto politico del proprio lavoro» e interessandosi solo ai suoi pareri in fatto di stile.

A questo punto il saggio passa ad illustrare la posizione del Cesarotti sulla tragedia alfieriana, notando che essa si distacca da quella degli altri primi critici dell’Alfieri «perché là dove nessuno, o quasi, accennava alla novità tematica della produzione alfieriana; preoccupati i difensori e i detrattori, di discutere lo stile, la verisimiglianza, la lingua delle tragedie, poco o punto interesse suscitò il contenuto piú sostanziale di esse» (anche perché solo con la Rivoluzione francese il tema libertario alfieriano apparve nella sua novità, laddove prima era apparso non piú che un luogo comune letterario autorizzato letterariamente da una lunga tradizione e innocuo agli occhi del moderatismo politico dei censori alfieriani). Nel caso del Cesarotti la Congiura suscitò reazione proprio per il suo tema, e per la sua posizione politica che urtava nella posizione media e moderata (sia in campo politico che letterario) del Cesarotti che qui viene rapidamente illustrata, per poi illustrare a contrasto la dirompente posizione alfieriana e in particolare quella rappresentata dalla Congiura su cui il Cesarotti insisteva, addirittura proponendo al poeta una diversa impostazione e un diverso svolgimento della tragedia, e dei suoi personaggi. A tale proposta l’Alfieri avrebbe realmente risposto nel Parere sulla tragedia riconoscendone errori e difetti, ma riaffermando la persuasione della necessità della sua composizione e quindi l’indiscutibilità dei princípi in quella tragedia sostenuti, e mai abbandonati anche nel periodo dell’atteggiamento antirivoluzionario e antifrancese, proprio perché l’«astoricismo» dell’Alfieri «e la sua conseguente capacità di emblematizzare i fatti, lo aiutava a serbare intatto un patrimonio di verità ideali sentimentalmente sorrette». Sicché lo scritto della Pagliai si conclude ritornando alla ragione della «menzogna» della lettera del 30 marzo 1785: «Da questa prospettiva, anche rispondere al Cesarotti sul contenuto della Congiura avrebbe significato scendere dal piano del sentimento a quello della logica, dall’assoluto al relativo storico, spiegare, a chi non poteva intendere, il nucleo sostanziale del proprio mondo poetico, politico ed etico: meglio una piccola menzogna che illustrare razionalmente ciò che forse l’Alfieri non avrebbe saputo, neppure a se stesso, dispiegare in termini di logica razionalità». Resta però il fatto, a mio avviso, che, pur accettando l’ipotesi della menzogna alfieriana, la sua motivazione non è persuasiva in quanto nel Parere sulla Congiura de’ Pazzi l’Alfieri pur dà, nei suoi modi particolari, una risposta comunque formulata a obiezioni del tipo di quelle del Cesarotti (ed anzi la stessa Pagliai osserva che il Parere «in effetti è una risposta indiretta a questa lettera, anche se il Cesarotti non è citato»). Sicché la motivazione potrebbe essere piuttosto una forma di cautela, di volontà di non rompere apertamente con il Cesarotti in un periodo contrassegnato da ottimi rapporti fra i due, e non una incapacità dell’Alfieri a dare una spiegazione razionale del suo mondo politico-poetico. Ché piú in generale il discorso che la Pagliai svolge a piú alto livello (partendo appunto dal particolare caso del dissenso cesarottiano e della «menzogna» alfieriana) circa la prospettiva alfieriana nei confronti della realtà politica e la nativa tendenza astorica e sentimentale del suo credo libertario «metastorico e metapolitico» andrebbe piú pacatamente commisurato entro una pur innegabile capacità alfieriana di dar motivazioni non tutto «illogiche» ai suoi sentimenti-convinzioni, anche se egli non giunse mai a una «coerente dottrina dello stato», sicché la giusta asserzione della Pagliai circa la persistenza dei motivi di fondo del libertarismo alfieriano sotto il cambiamento dalle iniziali simpatie per la rivoluzione francese – nella sua fase monarchico-costituzionale, si ricordi – non toglie all’atteggiamento antirivoluzionario che un percorso è pure innegabile dalle forme piú ribelli e repubblicane della Tirannide ai tentativi di riformismo monarchico-costituzionale, all’inglese, dell’Antidoto. Ma il discorso è troppo grosso per riproporlo qui. Resta comunque apprezzabile anche in questa direzione (pur se discutibile in tutte le precise implicazioni del discorso) la viva apertura della Pagliai (discordante da certe valutazioni troppo negative di un Alfieri semplicemente e interamente «reazionario») all’enorme carica eversiva (trasposta anche letterariamente entro le forme di un classicismo cosí diverso da quello tradizionale) della posizione alfieriana, ché «se è vero che un siffatto libertarismo ha la sua radice in un atteggiamento aristocratico che trova cosí l’unica ragione di sopravvivenza, è altresí vero, sul piano storico, che la fecondità di un atteggiamento rivoluzionario non sempre si misura sul metro dei contenuti ideologici, ma talvolta anche dalla forza dirompente del sentimento che lo anima e dalla intrinseca sua capacità negativa, dalla forza con cui si dice di no a ciò contro cui si combatte». Un punto poi che mi piace sottolineare (seppure per piú ampi sviluppi) entro il folto e un po’ intricato discorso della Pagliai, è l’indicazione della celebre raffigurazione alfieriana nell’Angelo Mai del Leopardi: «L’unicità dell’atteggiamento alfieriano è rilevata e al tempo stesso limitata nella sua potenza operativa. Nell’alta retorica di questi versi, l’elemento riduttivo ha piú spazio di quello affermativo («in su la scena»; «misera guerra»; «vano campo», «ire inferme»). Si tratta di uno stimolo assai fecondo che riporta dall’Alfieri (su cui tale indicazione può portare anche qualche complicazione nella valutazione della sua «rivoluzione») al Leopardi stesso e alla sua concezione non facile ed enfatica della potenza dell’arte: Leopardi capiva (anche se poi giunse nella Ginestra ad una fusione piú intera del suo messaggio ideologico-poetico) la stoltezza di chi crede di poter distruggere solo «con le parole» una società ed un sistema, capiva che decisiva è una prassi rivoluzionaria attiva e operativa, pur sentendo (in questo ingorgo fervido e doloroso di volitività e di comprensione) che purtroppo quella «misera guerra» era la sola concessa in certe situazioni (soprattutto la situazione del tetro sonno della Restaurazione in cui la canzone ad Angelo Mai si iscrive) alle «ire inferme del mondo» e che (pur con la consapevolezza di tali limiti) l’uomo di cultura e il letterato – quando non possono muoversi entro un contesto attivo e storicamente aperto – combattono comunque con le loro armi e non si debbono rassegnare al silenzio e tanto meno al conformismo superando la posizione piú ingenua e pur cosí sincera e significativa de «l’armi, qua l’armi» del «combatterò, procomberò sol io» della canzone All’Italia. Nel grande Alfieri egli avvertiva insomma la forza e la miseria della letteratura, tanto piú serio, già allora, di letterati presuntuosi della loro forza eversiva solo come letterati o di letterati chiusi ad ogni impegno ideologico-pratico anche disperato.

Un’ultima osservazione può nascere dalla lettura di questo saggio (a parte il desiderio di una delineazione migliore delle posizioni cesarottiane) come conferma di quanto la Pagliai dice circa la disattenzione dei primi censori delle tragedie alfieriane al fondo etico-politico di queste. I piú forti e profondi attacchi alla poesia alfieriana per il suo contenuto «demagogico» pericoloso furono quelli del Bettinelli nella sua lettera del 1790 al De Giovanni (e ciò appunto quando già la pericolosità alfieriana si chiariva sullo sfondo degli inizi della rivoluzione francese), mentre l’Arteaga poi rilevava, con la sua stroncatura della Mirra, il fondo di eversione antiprovvidenziale e antiteistica dell’Alfieri che pur deve essere ben calcolato quando non ingiustamente si parla della «rivoluzione alfieriana».

Vittorio Alfieri, Saul, a c. di Tommaso Pisanti, 2a edizione, Napoli, Loffredo, 1970, pp. 124.

Corredata di un’appendice che riporta pochi brani della critica alfieriana e una nota bibliografica, oltre il Parere, la presente edizione del Saul si presenta come un commento modesto e invece a volte azzardato in ipotesi sulla potenzialità futura di certe battute alfieriane (basti notare in proposito la nota all’ultima battuta di Saul entro cui si intravvede «lo smarrimento del pastore leopardiano») e una breve introduzione (apparsa anche come articolo in «Filologia e letteratura», 62 ,1970, pp. 188-189) che in gran parte ricalca osservazioni mie su «libertà» e «limite».

«La Rassegna della letteratura italiana», a. 75°, serie VII, n. 3, Firenze, settembre-dicembre 1971

Vittorio Alfieri, Estratti d’Ossian e da Stazio per la tragica, a c. di Piero Camporesi, Asti, Casa d’Alfieri, 1969, pp. XLIII-631.

In questo massiccio volume (già segnalato nel n. 2-3 del ’70, ma cui si ritorna piú ampiamente in collegamento con la rassegna dei volumi piú recenti dell’edizione astese pubblicata nel num. precedente) il C. pubblica in una prima parte tutti gli estratti fatti dall’Alfieri dai Canti di Ossian cesarottiani da lui presi in considerazione (Fingal, La guerra di Caroso, Comala, La guerra di Inistona, La battaglia di Lora, La morte di Cucullino, Dartula, Temora, Oscar e Dermino, Callin di Cluta, Sulmalla, Carritura, Colloda: e cioè i poemetti per lui piú utili e disposti ad una dialogizzazione tragica) e quelli tratti da brani dei primi quattro canti della Tebaide di Stazio nella versione del Bentivoglio (nelle edizioni usate dall’Alfieri), agevolando (anche con l’ausilio di chiari rimandi di numerazione dei versi alfieriani e di parentesi che distinguono i versi utilizzati da quelli espunti dall’Alfieri) cosí al lettore (con un’offerta utilissima e meritoria) l’esame di raffronti fra la riduzione alfieriana e gli originali.

La pregevole opera editoriale è poi appoggiata da una lunga introduzione (e da una lunga nota testuale) notevolmente ricca di osservazioni e stimoli ad un diretto studio di questa importantissima via della formazione del «verso tragico» alfieriano e dei rapporti (non solo puntuali) fra l’Alfieri e le suggestioni soprattutto del testo ossianesco-cesarottiano (nonché, piú ridotte, dei rapporti con Stazio già studiati dal Calcaterra).

Cosí al vecchio studio del Mazzoni e al recente studio di A. Fabrizi, Studi inediti di Vittorio Alfieri sull’Ossian del Cesarotti, Asti, 1964, dovranno aggiungersi ora le pagine del Camporesi, utili anzitutto ad una minuta e precisa ricostruzione oggettiva del lavoro alfieriano degli estratti (anche in rapporto alle precise edizioni dell’Ossian e della Tebaide usate dal poeta), ma, ripeto, utili e sollecitanti anche per una ulteriore ripresa del preciso confronto fra gli originali e la loro alfierizzazione in direzione dialogico-drammatica.

È ovvio poi che, al di là dello studio di tale utilizzazione alfieriana dei testi ossianeschi-cesarottiani e staziani-bentivogliani, vale sempre l’esigenza (specie nei confronti dell’Ossian e della sua eccezionale importanza di mediazione di immagini e motivi del preromanticismo nordico) di valutare piú internamente gli acquisti e i nuovi fermenti della fantasia alfieriana in rapporto alle sollecitazioni di quei testi, non solo letti ma assimilati attraverso un’operazione cosí stretta e personale, complessa, di cui le pagine del Camporesi (soprattutto la Nota) rilevano alcuni aspetti piú strettamente e minutamente stilistici (sino a quello dell’intervento rivelatore – forse a volte un po’ troppo caricato di significatività, nel caso specie dell’uso delle maiuscole – della punteggiatura drammatica dell’Alfieri): via su cui del resto il discorso è assai aperto e ampliabile (l’aggiunta, ad esempio, dei «purtroppo» alfieriani rispetto agli originali).

Renato Traspadini, Il punto sulla «politicità» dell’Alfieri, «Aevum», XLV (1971), III-IV, pp. 358-366.

Criticando le posizioni di quanti hanno cercato di individuare un preciso pensiero politico nell’Alfieri, l’autore si sofferma soprattutto sulla fase delle Commedie, cui egli nega qualsiasi interesse politico, risolto invece in un intento artistico e in un gusto di satira non delle istituzioni, ma dei personaggi che vi agiscono. Nell’insieme l’articolo ribadisce posizioni scontate circa l’imprecisione di un vero originale pensiero politico alfieriano, ma le aggrava in un livellamento generale ben poco produttivo all’insegna del «metastorico e metapolitico» e soprattutto della piú generale qualifica della prospettiva artistica assolutamente preminente, e unicamente considerabile positivamente secondo una tendenza di certa critica cattolica che cosí interessatamente riduce e dissolve nella «poeticità» ogni elemento aggressivo o rivoluzionario dei piú inquietanti poeti e vede in questi casi una specie di inquinamento della «poesia», una sua soggezione «in epoca moderna» «all’egemonia del pratico (politico)», mescolando insieme magari «D’Annunzio col mito del superuomo» e «lo stesso Leopardi della Ginestra o della Palinodia». Si ritorna insomma al Bettinelli: i poeti facciano i poeti e non partecipino personalmente a ideali politici e ideologici.

Quanto alle forzature dei passi critici citati nel discorso noterò che la mia osservazione nella Storia Garzanti circa le Commedie alfieriane («in complesso le commedie rispondono piú ad una volontà programmatica che ad una profonda ispirazione») non è affatto, come dice il Traspadini, una mia correzione circa quanto ho detto sulla volontà alfieriana di «abbozzare in forma di aspra commedia un suo ideale di stato, ecc.». Le due osservazioni sono infatti di ordine chiaramente diverso, legate ad un discorso intermedio che passa dalla considerazione del programma politico delle Commedie alla considerazione della loro efficacia teatrale e del loro carattere ingorgato e contorto, corrispettivo, se si vuole, di una difficoltà della stessa faticosa ideazione politica, ma non negante l’interesse e la volontà dell’Alfieri di una ricerca – per lui difficile quanto si vuole, ma non estranea alle sue intenzioni – di sistemazione del suo ideale di uno stato garante di libertà (e si veda tutto il terzo paragrafo del mio capitolo garzantiano: Posizione storica e politica).

«La Rassegna della letteratura italiana», a. 76°, serie VII, n. 1, Firenze, gennaio-aprile 1972

Gioacchino Gargallo di Castel Lentini, Le lettere dell’Alfieri a Gargallo e le loro vicende. «Studi e problemi di critica testuale», V (ottobre 1972), pp. 131-134.

Riferendosi alla nota di L. Caretti su Alfieri, Gargallo e una sconosciuta lettera alfieriana apparsa sulla stessa rivista, n. 4, e da me schedata nel n. 2-3, 1972 della «Rassegna della letteratura italiana», il discendente di Tommaso Gargallo fornisce alcuni chiarimenti sulla lettera alfieriana pubblicata dal Caretti, sulla condizione dell’archivio Gargallo (l’Archivio sarà pubblicato dall’autore di questa nota con l’aiuto di R. Romeo e di alcuni laureati dell’Università di Roma), sulla scomparsa dei copialettere del Gargallo precedenti al 1816; e pubblica qui, intanto, la seconda lettera alfieriana che il Caretti ricercava. Si tratta di una lettera da Firenze, del 20 maggio 1795, in cui l’Alfieri, scusandosi del silenzio di quattro mesi nel rispondere all’invio delle poesie del Gargallo (silenzio dovuto – ed è accenno certo assai interessante per l’attività di Alfieri regista e attore di tragedie sue e altrui – al fatto che «piú di quattro mesi sono ch’io stò qui recitando alcune tragedie, in casa mia, il che tra prove e riprove, e studiar delle parti, e dirigere, e imparare, o tentare, mi piglia delle molt’ore e mi cagiona continui disturbi e pensieri»: attività teatrale che si prevede finita solo «a mezzo giugno») e della lettura «strapazzata» finora fattane e rinviata, con il necessario agio, all’estate, ringrazia lo scrittore siciliano delle lodi «non meritate» e intanto rileva, da quella scorsa al volume, che ha «trovato per tutto della fantasia e dell’affetto, che sono le vere sorgenti della Poesia», soffermandosi sugli epigrammi in cui il poeta dice di aver «trovato dell’ottimo ed amaro sale, che tanto piú mi è piaciuto, quanto questo genere è piú raro in Italia, dove o non c’è epigramma, o sono delle oscene e sconcie ingiurie», e rallegrandosi «che ella prosegua e ce ne dia un buon volume, e massime di quelli che mordendo il vizio, e non gli individui, rimangono poi senza aver bisogno di commento nessuno, quasi regole del bene vivere a chi viene dopo di noi».

Vittorio Alfieri, Maria Stuarda (vol. XI delle Tragedie), a cura di Raffaello De Bello, Asti, Casa di Alfieri, 1970, pp. 305.

Anche questo volume dell’edizione critica astese delle Tragedie alfieriane si raccomanda per la precisione e diligenza con cui il curatore ci offre il testo definitivo; l’idea, anzi (nel caso di questa tragedia dalla gestazione lenta, complessa, tormentata quanto piú l’ispirazione ne fu non facile in rapporto ad una intenzione di far opera grata alla contessa di Albany che ne indicò all’Alfieri il soggetto «stuardiano» con chiare allusioni, piuttosto ibride, alle proprie vicende di moglie dell’ultimo e maleavventurato discendente della famosa regina di Scozia) le due «Pereo», qui riportate a fronte (la prima dell’agosto 1778, la seconda, revisione della prima, da riferirsi forse all’epoca della stesura); poi la stesura (5 giugno-31 luglio 1779); infine la prima e seconda versificazione a fronte (la prima iniziata a Firenze il 2 marzo 1780 e terminata, dopo un lunghissimo lavoro, l’11 maggio; la seconda scritta a Roma fra il 22 gennaio e il 18 febbraio 1782) con le ultime varianti (i cartolini della Didot) e, sotto, le varianti della seconda versificazione autografa, della stessa, corretta dall’Alfieri, della copia Polidori, della stessa, corretta dall’Alfieri, dell’edizione Didot.

Abbiamo cosí anche per la Maria Stuarda tutto il materiale utilizzabile ai fini di una ricostruzione dell’iter formativo ed elaborativo di questa tragedia alfieriana, nonché (nella Nota introduttiva del curatore) altri documenti ed osservazioni sempre utili a lumeggiare quell’iter e a suggerire (pur con cautela) aspetti anche centrali della struttura e della dinamica della tragedia, considerata – non certo a torto – dal De Bello come tragedia «che forse è da annoverarsi fra le meno belle delle tragedie alfieriane» e quindi – per mancanza di un piú solido e sicuro impianto ispirativo iniziale e centrale – una delle tragedie di piú «complessa e faticosa creazione». Di tale faticoso lavoro ideativo ed elaborativo (a parte il caso particolare dell’espunzione, sulla copia Polidori, dei versi 97-106 e 110-118 della seconda versificazione autografa – che dipingevano con colori risentiti e sarcastici la figura di Carlo Edoardo, inetto, vivo in «accidioso sonno», dedito all’ubriachezza, a cui «campo ... fia la mensa»: e a lato dei quali l’Alfieri scrisse: «si tralascino perché ho avuto la disgrazia di conoscere quel personaggio, cosí non mi si potrà dar taccia di maligno. Ma pure l’arte voleva che ci rimanessero questi versi»: sottolineatura di spinte e controspinte assai pertinenti ad aspetti personali di questa tragedia nei suoi margini piú legati alla vicenda propria e della donna amata) il De Bello indica alcuni momenti e motivi: come la sostituzione, nella idea rivista, di Lenox «padre del re onesto e buono» con quello di Knox, poi Lamorre, il fanatico sacerdote; le conseguenti mutazioni della scena e della psicologia degli altri personaggi, con l’accrescersi – in contrasto con i personaggi «politici» – della solitudine, fragilità e tenerezza femminile di Maria, bisognosa di affetto e oppressa dal peso della corona; la grande lunghezza del lavoro della prima versificazione, all’inizio della quale l’Alfieri sottolineò l’importanza della figura del sacerdote Lamorre-Knox, per poi, nel corso della versificazione, avvertirla inferiore alla crescente presenza di Botuello; il rilievo da dare ad una dedicatoria alla donna amata premessa al frontespizio nella seconda versificazione, esclusa poi dal testo definitivo e intesa – in modi in verità un po’ contorti – a ribadire l’idea di una genesi della tragedia non di spontaneo suo genio, sia perché «dei temi antichi piú mi diletto assai come piú ricchi in virtú e piú grandiosi in delitti», sia perché «ben previdi che di questo uscire non mi potea senza o all’adulazione inchinare o in alcuna parte offendere la memoria di una stirpe a cui per lunga infelicità vostra di santi legami astratta viveste», e a rilevare comunque la sua libertà di poeta nello «sviluppare il vero»; il fatto che la copia Polidori offre – nei confronti con la seconda versificazione – «ampi e profondi mutamenti, mossi soprattutto dall’intento di articolare maggiormente il dialogato abbreviando e moltiplicando le battute dei personaggi», mentre – laddove «sulla copia Polidori gli interventi autografi saranno minimi» – «i mutamenti tornano profondi e numerosi nel trapasso dalla detta copia alla edizione definitiva», tanto da far pensare che la tragedia «tra la seconda redazione e la copia Polidori o meglio ancor tra questa e l’edizione definitiva, abbia avuto redazioni intermedie che non ci sono giunte, tanto piú che l’Alfieri ci dice nella Vita che per questa tragedia impiegò molto piú arte, e sottigliezze e avvertenze e fatiche che in nessuna delle altre». Motivi e ipotesi ben utili ad avviare quella ricostruzione dinamica anche della Maria Stuarda, essenziale a realizzare, meglio che con una semplice interpretazione isolata del suo testo definitivo, un giudizio storico-critico di questa tragedia cosí complicata e centralmente debole (l’Alfieri nel «parere» la disse «la piú cattiva di quante ne avesse fatte o stesse per farne l’autore, la sola forse che non vorrebbe aver fatto»), ma non priva comunque di interesse nella prospettiva teatrale dell’Alfieri e nella sua escogitazione di mezzi persino spettacolari (il finale scoppio delle polveri) a sopperire alla mancanza di nuclei tragico-poetici piú veri, nonché nella verifica della vita difficile, ma persistente di Leitmotive poetici alfieriani (come il bisogno di Maria di «amare riamata») entro questa struttura tragica cosí difficile e tormentata, quanto piú escogitata a freddo e concepita come prova di abilità tecnica, di impegno volontaristico in una situazione, disposizione e momento creativo cosí poco propizio e congeniale.

«La Rassegna della letteratura italiana», a. 77°, serie VII, n. 1, Firenze, gennaio-aprile 1973

Vittorio Alfieri, Ottavia, a cura di Angelo Fabrizi, Asti, Casa di Alfieri, 1973, pp. 331.

Nella edizione astese delle opere alfieriane esce ora il testo critico dell’Ottavia, come al solito seguíto dall’idea, dalla stesura, dalla prima e seconda versificazione con tutte le relative varianti. La nota introduttiva del curatore si presenta ampia, ben documentata, e ben delinea la genesi e il lungo percorso elaborativo di questa singolare e affascinante tragedia che spicca per particolare luce poetica (intorno alla delicatissima e pur alta figura della protagonista) nel periodo intricato e non privo di incertezze (ma anche di maturate novità teatrali e poetiche) che – dopo il grande momento iniziale ed esplosivo della tragedia alfieriana – raccoglie insieme le tre tragedie di libertà (esse stesse cosí varie per effettiva direzione e forza tragico-poetica), il Don Garzia, la Maria Stuarda, la Rosmunda e appunto l’Ottavia. Mentre il Fabrizi giustamente esclude nella genesi dell’Ottavia le citazioni (se non parzialissime) dell’omonima tragedia pseudosenechiana (che pur l’Alfieri trascrisse ad estratti), egli appoggia fortemente la stessa indicazione alfieriana del forte debito con le pagine tacitiane, ma escludendo dallo stimolo tacitiano la concezione cosí moderna della protagonista. Ma, a mio avviso, eccessivo è il modo con cui egli giustifica tale novità alfieriana («può ben dirsi che la concisione di Tacito lasciò una fortunata libertà alla fantasia dell’Alfieri, svincolandola dal fascino del testo ispiratore quando il poeta dovette dare un volto e dei sentimenti alla protagonista della tragedia»), cosí come lo stesso clima della tragedia, a mio avviso, rielabora sí stimoli tacitiani, ma in maniera originalmente alfieriani.

Buone le osservazioni sulla differenza fra le due versificazioni (differenze di particolari della vicenda: l’opposizione di Seneca alla volontà suicida di Ottavia e soprattutto differenza nel vigore ed efficacia dello stile) e utile anche in una nota il richiamo di un preciso passo della Merope voltairiana in una battuta di Nerone a Tigellino che riprende le parole rivolte da Poliphonte al suo favorito Erox.

Sono prime indicazioni per un lavoro completo che può rilanciare un’attenzione critica generale su questa alta tragedia (già cosí finemente valutata specie dal Momigliano), meritevole di un’indagine e di un rilievo particolari, tenendo conto del fatto che – mentre le stesse figure degli altri personaggi risultano piú complesse di quanto di solito siano apparse – la grande figura di Ottavia (conscia della sua fragilità inerente alla sua femminilità e alla sua educazione, ma fortissima nella difesa della sua dignità e tormentata dal suo assurdo, complicato, ma invincibile amore per Nerone, con una fedeltà che è anzitutto fedeltà a se stessa e all’immagine giovanile della persona amata) non può ridursi solo a personificazione tragica «dell’umana debolezza e fragilità», come il Fabrizi ripete secondo una certa tradizione di interpretazione di questo personaggio. Quanto all’altezza tragica e al clima crepuscolare che in essa si crea e che cosí ben si armonizza con la sorte funerea e gli aspetti tragico-elegiaci della protagonista, basti qui richiamare la grande apertura dell’atto quinto, quando, sola nella cupa reggia dei Cesari, Ottavia avverte l’improvviso silenzio del popolo (che fino allora l’aveva sorretta e difesa contro Nerone) e quindi la sua indifesa solitudine e la sua sorte mortale: «Ecco, già il popol tace: ogni tumulto / cessò; rinasce il silenzio di morte, / col salir delle tenebre. Qui deggio / aspettar la mia sorte; il signor mio / l’impone».

«La Rassegna della letteratura italiana», a. 77°, serie VII, n. 3, Firenze, settembre-dicembre 1973

Massimiliano Boni, L’Alfieri e la rivoluzione francese con altri scritti alfieriani, Bologna, Edizioni Italiane Moderne, 1974, pp. 167.

Il presente volume raccoglie lo scritto che dà il titolo al volume e varii scritti, per lo piú relativi a varie pubblicazioni e rappresentazioni alfieriane: Appunti apologetici sull’Agamennone, con alcuni spunti validi per una valutazione giustamente positiva di quella tragedia, di cui però appare forzato l’elogio del linguaggio teatrale per cui l’Agamennone appare «complessivamente, forse, superiore allo stesso Saul»; Un discorso «alfieriano» di Quasimodo, variazione stimolante, ma poco precisa, sull’alfierismo del discorso che Quasimodo pronunciò a Stoccolma in occasione del conferimento del premio Nobel; La natura teatrale dell’ispirazione alfieriana, recensione all’omonimo volume di R. Scrivano, valutato ben positivamente a parte il dissenso circa il Bruto secondo, e qualche obbiezione circa la valutazione delle Commedie; Il mio caro Alfieri (Leopardi e Alfieri), non inutile, anche se ridotta, sottolineatura dell’essenziale rapporto del Leopardi con l’esemplarità alfieriana (ma inaccettabile appare l’ipotesi che su certe riflessioni di tipo alfieriano del Leopardi abbia «influito la conversazione di Stendhal»); Dall’Etruria vendicata a Parigi sbastigliato, con osservazioni (centrali, come vedremo, sulla prospettiva del Boni circa lo sviluppo dell’atteggiamento politico alfieriano) sul forte rilievo crescente dato dall’Alfieri alla «legge»; L’Alfieri e il Savonarola, rapida interpretazione della singolare figura savonaroliana nell’Etruria vendicata (un Savonarola che «ha letto e meditato Alfieri»); Saggi alfieriani di Walter Binni, lunga recensione del mio volume del ’69, molto positivamente riesposto e valutato – in particolare per il saggio sulla Mirra, e soprattutto per la sua lettura teatrale – a parte un dissenso circa il valore del Timoleone e dell’Agide su piano ideologico; Sulle Commedie alfieriane, qualche capricciosa riflessione (breve ritorno sulla discussione già ricordata con lo Scrivano); Poesia e ideologia nell’Alfieri (recensione-discussione dell’omonimo volume di V. Masiello, di cui si riconosce il valore, ma cui si contesta la prospettiva di un finale Alfieri «reazionario» e la collocazione della Mirra «in una prospettiva ideologica» – l’eroismo individualistico e plutarchiano – «che poco le si addice»); Per una rappresentazione dell’Agamennone (osservazioni variamente centrate sulla nota rappresentazione con la regia del Montemurri).

All’idea costante della genuina teatralità alfieriana che percorre tutto il volume del Boni (idea nata contro l’interpretazione crociana, russiana, ramattiana e impostata nella critica moderna da me fin dal mio volume alfieriano del ’42) il Boni accompagna, come suo piú personale contributo, l’accentuazione del «costituzionalismo» alfieriano come spiegazione (meglio esplicitata nel saggio su L’Alfieri e la rivoluzione francese) dello stesso atteggiamento alfieriano di fronte alla rivoluzione francese ed elemento costante dell’ultimo Alfieri rispetto a quello piú chiaramente prerivoluzionario dell’Alfieri delle prime tragedie e della Tirannide (con un connesso privilegiamento della «legge» e con una piega in direzione religiosa o in direzione di una diversa considerazione positiva della religione negli anni maturi dello sviluppo alfieriano). Certo alcune osservazioni, constatazioni e documentazioni del Boni sono sostanzialmente corrette, utilizzabili e certo contrastano giustamente Sapegno ed altri circa un Alfieri reazionario e sempre reazionario. È solo da osservare che la maggiore forza e spinta della grande personalità e poesia dell’Alfieri è soprattutto costituita (entro e al di là delle precise forme dei suoi atteggiamenti ideologico-politici e del suo costante eroismo aristocratico) dal dirompente fondo antiautoritario, antidogmatico, energicamente pessimistico, che provocò, pour cause, l’avversione e l’ironia, nei suoi confronti, dei veri reazionari e degli stessi moderati buonsensai e filistei.

«La Rassegna della letteratura italiana», a. 78°, serie VII, n. 3, Firenze, settembre-dicembre 1974

Vittorio Alfieri, Parere sulle tragedie e altre prose critiche, a cura di Morena Pagliai, Asti, Casa di Alfieri, 1978, pp. 546; Id., Tragedie postume. Vol. 2°: Abele, a cura di Raffaele De Bello, Asti, Casa di Alfieri, 1978, pp. 230.

La importantissima e benemerita impresa editoriale del Centro Nazionale di Studi alfieriani in concorso con la città e provincia di Asti (e che tanto deve particolarmente all’attività di Carmine Jannaco) procede con grande speditezza e già trentatré volumi sono usciti, all’incirca tre quarti dell’edizione. Cosí nel febbraio 1978 sono stati stampati il volume importantissimo del Parere sulle tragedie e quello che contiene l’Abele (nonché i frammenti di tramelogedie, il Conte Ugolino e la Scotta).

Mentre questo secondo è curato da Raffaele De Bello che in una sobria, essenziale introduzione traccia la laboriosa storia della genesi e realizzazione dell’Abele che abbraccia un arco di circa quattordici anni, ne ritrova lo spunto nell’ambito del Saul, ne definisce (contro la vecchia interpretazione esaltativa del Citanna) la scarsa profondità e (a parte «alcuni rapidi e sinistri bagliori che mettono a nudo l’inquieto, torbido, contraddittorio animo di Caino») la natura di una concessione alla moda, il primo è un volume del tutto singolare e composito in quanto raccoglie in quattro sezioni gli scritti critici pubblicati nella Didot, prime stesure di documenti editi, scritti inediti o postumi e (come appendice) scritti di altri, richiesti o utilizzati dall’Alfieri (Paciaudi, Tana, Lampredi, La Porte du Theil, contessa d’Albany, Cesarotti, Anonimo, Bosi, Tiraboschi).

Eppure dall’insieme e dal rapporto tra le varie parti, come dimostrano le ragioni addotte dalla curatrice, la Pagliai, per giustificare i propri criteri di scelta del materiale, risulta un imponente e utilissimo corpus di documenti propri ed altrui che chiariscono la posizione critica dell’Alfieri nei confronti delle proprie tragedie anche in reazione appunto a giudizi altrui, sicché par giusto quanto la Pagliai dice del risultato del volume come contributo «ad una piú articolata ricostruzione dell’Alfieri critico di sé» e in certi casi, mi pare, alla ricostruzione della sua stessa poetica.

La lunga introduzione ricostruisce poi minutamente e nuovamente la storia dei singoli documenti pubblicati (nuove, ad esempio, le osservazioni circa i giudizi della d’Albany).

Vittorio Alfieri, Opere, tomo I, introduzione e scelta di Mario Fubini, testo e commento a cura di Arnaldo Di Benedetto, Milano-Napoli, Riccardo Ricciardi Editore, 1977, pp. CVIII-1097.

Questo primo volume delle Opere alfieriane nella collana Ricciardi – curato quanto a testo e commento, con diligente ed essenziale chiarezza esegetica e ricchezza di riferimenti interni all’opera dell’Alfieri da Arnaldo Di Benedetto, e che comprende l’intero testo della Vita (con in piú alcuni capitoli della prima redazione), i Giornali e gli Annali e, fra le tragedie, il Filippo, il Polinice, l’Antigone, la Virginia, l’Agamennone, l’Oreste, la Rosmunda, l’Ottavia, la Merope, la Congiura de’ Pazzi, il Saul e la Mirra – si raccomanda anzitutto al lettore per la lunga introduzione del Fubini che viene pubblicata postuma rinnovando il rimpianto di tutti gli estimatori del grande studioso e che sembra (seppure insieme a qualche altro documento, uscito postumo, dell’ultima operosità del Fubini) sigillare nel nome dell’Alfieri (uno dei massimi autori – non solo di studio – del grande critico) l’attività fubiniana. E anche se questa vasta e densa introduzione per tanti aspetti si rifà al lunghissimo lavoro alfieriano del critico fino alla voce Alfieri nel Dizionario Biografico degli Italiani e alle sue idee centrali sul grande poeta tragico, essa (agevolata da una scrittura particolarmente animata ed organica) si avvale, con un accento piú intenso, della fortissima prospettiva data alla Vita e alle Rime come «diario poetico» a base di tutta l’opera alfieriana e viene cosí, per ragioni interne, a coincidere con una forte tendenza recente a rilevare fortemente, anche se per diversi approcci critici, il significato centrale della autobiografia alfieriana.

«La Rassegna della letteratura italiana», a. 83°, serie VII, n. 3, Firenze, settembre-dicembre 1979

Clemente Mazzotta, Per l’edizione critica del «Misogallo». Le stampe fondamentali, in Studi in onore di Raffaele Spongano, Bologna, Boni, 1980, pp. 285-304.

Lo studio del M., dopo aver indicato la situazione della fortuna editoriale del Misogallo, «assai piú estesa di quanto non lascino intravvedere le invecchiate bibliografie alfieriane» (la vecchia bibliografia del Bustico e quella di D. Fava, in attesa di quella di W.J. van Neck), si applica alla particolareggiata indagine classificatoria delle prime edizioni, stabilendone la data esatta (l’enigmatica princeps datata addirittura 1744, invece successiva all’abdicazione napoleonica dell’aprile 1814, e uscita dai torchi pisani del Nistri, la pseudolondinese del Piatti, 1800, invece pure del 1814) e discutendo, con validi argomenti, l’edizione Renier (sostanzialmente esemplata sulla prima, scorrettissima pur con emendazioni e integrazioni parziali) in maniera assai convincente, per concludere, sulla base di un lucido stemma complessivo, che «tanto la princeps quanto la Piatti e la Renier condividono il ruolo subalterno di descripti, e vanno con ogni tranquillità escluse da ogni operazione indirizzata al restauro critico dei testi e all’allestimento sistematico degli apparati».

«La Rassegna della letteratura italiana», a. 85°, serie VII, n. 1-2, Firenze, gennaio-agosto 1981

Vittorio Alfieri, Timoleone, a cura di Lovanio Rossi, Asti, Casa di Alfieri, 1981, pp. 307.

Con questo volume l’edizione nazionale delle opere dell’Alfieri (curata dal Centro alfieriano ora presieduto da Luigi Firpo e composto da F. Argirò, W. Binni, A. Fabrizi e M. Guglielminetti) si avvia alla conclusione del suo lungo e fruttuoso lavoro. Il testo del Timoleone, a cura di Lovanio Rossi, è rigoroso e, secondo lo schema dell’edizione nazionale, comprende l’idea, le stesure e le varianti della «terza tragedia di libertà», la cui «idea» fu fissata a Firenze nel 1779 (dopo la lettura della plutarchiana vita dell’eroe che dà nome alla tragedia), il 21 agosto, per essere poi «stesa» dal 14 al 20 luglio 1780, mentre la prima versificazione fu eseguita a Roma dal 24 luglio al 16 agosto 1781, la seconda pure a Roma dal 14 maggio al 10 giugno 1782 per essere pubblicata nel 1783, nell’edizione Pazzini di Siena, e rielaborata e ripubblicata definitivamente nella Didot del 1788-89: è quanto viene succintamente e chiaramente fissato nella sobria nota introduttiva del Rossi, che si preclude ogni piú personale considerazione dell’opera (non questo era il compito del curatore) che, a mio avviso (l’ho già detto piú volte nei Saggi alfieriani e in Settecento maggiore, sostanzialmente lo ribadisco dopo questa nuova rilettura), rimane una tragedia certo ben significativa e ben costruita, ma in modi troppo schematici e con scarso afflusso della piú profonda poesia alfieriana, malgrado il fitto sostegno dei sintomatici «purtroppo» accumulati intorno alla lotta «virtuosa-tirannica» ma debolmente «sofferta» di Timoleone. Ben significativa dal punto di vista della concezione etico-politica dell’Alfieri della Tirannide e dell’esemplarità plutarchiana (non a caso egli la dedica «a Pasquale Paoli propugnator magnanimo de’ Corsi», un emulo moderno degli eroi plutarchiani), lucida nella costruzione e articolazione teatrale, essa rimane però sostanzialmente statica e schematica (anche nella figura di Demarista, alla fine, malgrado le sue oscillazioni di madre, troppo dominata dalla preoccupazione della «gloria» di Timoleone) fino alla conclusione, potenzialmente piú alfieriana, del dolore di Timoleone per la necessaria uccisione del fratello, ma realizzata in modi piú esterni e velleitari, non siglata dalla pessimistica elegia tragica che è suprema riprova dei grandi, rivelatori finali di altre tragedie (come, fra le «tragedie di libertà», nella grande Congiura de’ Pazzi), come tutto l’eloquio poetico della tragedia è piú decoroso che veramente «vibrato».

«La Rassegna della letteratura italiana», a. 87°, serie VII, n. 1-2, Firenze, gennaio-agosto 1983

Vittorio Alfieri, Saul, a cura di Carmine Jannaco e Angelo Fabrizi, Asti, Casa d’Alfieri, 1982, pp. 261.

Nel bicentenario della sua composizione a Roma, esce l’edizione critica del Saul nella benemerita collana della Casa d’Alfieri. Basti rilevare il risultato ben positivo dei curatori: il compianto Carmine Jannaco e Angelo Fabrizi suo assiduo collaboratore per molti anni. Secondo il modulo dell’edizione astese, il volume è nitidamente scandito nel testo critico della tragedia (sulla base dell’edizione Didot), e in quello della idea, stesura e versificazione con le ultime varianti. Sicché il lettore può ripercorrere l’iter ideativo ed elaborativo dell’Alfieri nella costruzione di uno dei suoi piú alti capolavori, anche se egli avrebbe scrutato sino in fondo la tragica situazione umana e arricchito la sua poesia di profonde vibrazioni elegiache e cosí realizzato il suo supremo capolavoro teatrale nella sconvolgente Mirra. Di questo iter il Fabrizi («nel ricordo di Carmine Jannaco» al quale sono dovute la trascrizione e la cura dell’idea, della stesura e della versificazione, mentre al Fabrizi è dovuta la cura del testo definitivo e il corredo critico che accompagna la versificazione) ricostruisce diligentemente le tappe nella lunga e impegnativa nota iniziale che si apre verso un vero e proprio discorso critico-tecnico e comunque offre ad esso dati utilissimi.

Vittorio Alfieri, Traduzioni, a cura di Marziano Guglielminetti, Maria Rosa Masoero, Claudio Sensi, volume secondo, a cura di Maria Rosa Masoero e Claudio Sensi, Asti, Casa d’Alfieri, 1983, pp. 593.

È il secondo volume delle traduzioni alfieriane (un primo e un terzo verranno pubblicati successivamente) che dà l’edizione critica della traduzione dell’Eneide. Il testo, munito delle varianti, a piè di pagina, verso per verso, è introdotto da una nota esclusivamente filologica che dà la descrizione dei manoscritti autografi e non autografi, da quello, autografo, della prima traduzione (datata fra 15 giugno 1790 e 15 maggio 1793), ricca di annotazioni autografe in margine al testo latino, a quello, pure autografo, della seconda traduzione (databile fra 26 settembre 1793 e 10 agosto 1795) a quelli non autografi, e rende conto della costituzione del testo critico basato sulla M4 di Montpellier di mano del copista Tassi, poi rivista e corretta dall’Alfieri nell’ultimo anno della sua vita (Ma4) e descrive i modi dell’apparato critico, mentre nell’appendice molto utilmente riporta le annotazioni autografe di altri manoscritti.

Lanfranco Caretti, Una nuova lettera alfieriana allo Scapin, in «Filologia e critica», VI, 1 (1981), pp. 119-121.

L’edizione del secondo volume dell’Epistolario alfieriano curata da Lanfranco Caretti nell’edizione astese (comprende le lettere dal 1789 al 1799), è uscita da pochi anni, e già lo stesso Caretti deve integrare il recente volume con una nuova lettera, tuttora inedita, dell’Alfieri al libraio padovano Carlo Scapin del 13 ottobre 1798 con cui il poeta aveva carteggiato nel corso di quell’anno per l’acquisto e la spedizione di libri dal Veneto a Firenze, dove egli, coadiuvato soprattutto da Ippolito Pindemonte e Monsignor Ercole Consalvi, ricostituiva la sua biblioteca, andata del tutto perduta durante le vicende rivoluzionarie francesi e la fuga precipitosa da Parigi. Il Caretti pubblica qui la breve lettera, legata appunto a queste spedizioni di libri, e ne offre un essenziale commento.

«La Rassegna della letteratura italiana», a. 87°, serie VII, n. 3, Firenze, settembre-dicembre 1983

Simona Costa, Lo specchio di Narciso: autoritratto di un «homme de lettres». Su Alfieri autobiografo, Roma, Bulzoni, 1983, pp. 148.

Questo volumetto (i cui tre capitoli sono già apparsi «in diversa stesura», il primo su questa rivista e gli altri due su «Il Cristallo» e «Inventario») vuole «riaggredire Alfieri per la scorciatoia del privato» e «ripercorrere la parabola di questo intellettuale di “frontiera” sulla scorta della sua autobiografia» «alla luce di un’antitesi fra la statuaria figura di un eroe spregiatore di tirannide da tutti conosciuto e il ritratto di un antieroe quale anche Rousseau veniva proponendo, in modo piú scoperto, nelle sue pagine autobiografiche». Il volumetto si raccomanda soprattutto per il rapporto fra la Vita e la memorialistica settecentesca.

Luigi Firpo, Heri dicebamus ... in «Annali alfieriani, Centro Nazionale di studi alfieriani») III, Asti, Casa di Alfieri, 1983, pp. 7-8, Cronache del Centro (R.M.), pp. 197-200.

Luigi Firpo, attivissimo presidente, dal 1974, del «Centro Nazionale di studi alfieriani» (gli altri membri del comitato direttivo sono: Francesco Argirò, Walter Binni, Angelo Fabrizi e Marziano Guglielminetti), annuncia la ripresa della pubblicazione degli «Annali alfieriani» fermi a un numero II del 1943 (datato appunto 1943 perché apparso all’inizio del ’44, mentre il primo era datato 1942-XX, e cosí segna «la fine di un’era ormai consegnata al sanguinoso e grottesco museo della storia») e che cosí completa con la sua raccolta di studi e ricerche l’attività prevalente del Centro e cioè la pubblicazione (ormai molto avanzata) delle Opere del grande scrittore.

Nelle Cronache del «Centro» si dà non solo notizia della vita del «Centro» dal 1943 ad oggi e della consistenza della Biblioteca e del Museo alfieriano in Asti, ma dei vari congressi alfieriani promossi dal Centro (dal 1949 in poi) e della serie di rappresentazioni di tragedie alfieriane dal 1949 al 1980, del procedere della edizione delle Opere già edite e di quelle in corso di stampa (5) o in corso di avanzata preparazione (3), a cui si aggiungeranno quattro volumi di Bibliografia alfieriana (catalogo dei manoscritti, bibliografia delle edizioni e della critica, inventario analitico della biblioteca di Alfieri) di cui è inutile sottolineare la grande importanza.

Marco Sterpos, Per una nuova edizione delle Rime di Vittorio Alfieri, in «Annali alfieriani», III, pp. 73-138.

L’autore si propone di «fornire un modesto contributo per una nuova edizione delle Rime dell’Alfieri, date le aggiunte e integrazioni ormai necessarie rispetto all’edizione del Maggini nel lontano 1955 e la necessità di correggere varie rime già presenti in quell’edizione». Dopo una breve premessa esplicativa di tutto ciò segue il corpus dei componimenti o aggiunti o corretti: sia sonetti, sia epigrammi, sia rime di vario metro, sia frammenti e versi sparsi, sia rime incerte o spurie sulle quali ultime lo Sterpos accetta assai ragionevolmente la paternità alfieriana per il sonetto e l’ottava composti per l’accademia di casa Gavard e la nega per gli altri quattro sonetti (Sullo stato d’Italia, Contro Roma, Al secolo decimottavo, O madre, al vento le parole getto) per tre dei quali discute con A. Actis Caporale (Due sonetti inediti attribuiti a V. Alfieri, in una miscellanea piemontese di primo Ottocento, in «Studi piemontesi», 1981) in base ad argomenti che mi piace qui riportare: «Mi sembra indubitabile che si sia in presenza di concetti e forme a cui l’Alfieri non si accostò neppure nei momenti del misogallismo piú acceso. In realtà, se è vero che proprio questo misogallismo, creando fra i contemporanei l’equivoco di un Alfieri reazionario, ha certo contribuito piú di ogni altro fattore a far ritenere alfieriani questi sonetti e altri simili, è nondimeno innegabile che l’orrore per i “Galli armati schiavi” non indusse mai il poeta a sposare la causa dei re: né in alcun modo ci sembra alfieriana la preoccupazione per le sorti del trono e dell’altare che si avverte vivissima in deprecazioni di questo genere» (come il finale del sonetto Sullo stato d’Italia o quello del sonetto Al secolo decimottavo).

Angelo Fabrizi, Alfieri e Marino, in «Annali alfieriani», III, pp. 9-48.

È un’indagine sottile ed equilibrata che evidenzia (non senza qualche forzatura come avviene in questo genere di ricerche) la presenza di Marino nella formazione letteraria dell’Alfieri (all’altezza del ’75), poi censurata dallo stesso Alfieri alla luce della squalifica arcadico-illuministica (del resto non priva di eccezioni: sarebbe da ricordare anche Martello) dell’aborrito rappresentante massimo del «malgusto secentesco» di cui viceversa si troverebbero tracce persino nella Mirra.

Arnaldo Di Benedetto, recensione a V. Alfieri, Epistolario, II, a cura di L. Caretti, in «Giornale Storico della letteratura italiana», f. 511, (3° trimestre 1983), pp. 452-457.

Ottima recensione-contributo alla edizione carettiana del II volume dell’Epistolario alfieriano nell’edizione astese che, ricordando il mio saggio sulle Lettere in Saggi alfieriani quale «unica trattazione specifica delle lettere alfieriane», ricostruisce il periodo relativo alla materia del II volume dell’Epistolario, insistendo sul rapporto Alfieri-rivoluzione francese e sulla brevità – pochi mesi – della speranza alfieriana in quella rivoluzione e in particolare sulla partecipazione alfieriana alla Massoneria a cui il Di Benedetto apporta alcune interessanti precisazioni ed ipotesi, proponendo il dubbio circa la nota rivolta antimassonica da collegare o alla condanna, nel ’91, di Cagliostro o proprio alla stessa rivoluzione francese.

Guido Santato, Rassegna alfieriana (1978-1981), in «Annali alfieriani», III, pp. 165-196.

Il Santato, autore di vari saggi alfieriani, piú avanti citati, riprende il lavoro avviato con una precedente Rassegna alfieriana (1972-1979), in «Lettere italiane», 1978, in cui egli già indicava «la tendenza di un ridimensionamento del monumento alfieriano manifestatosi con evidenza in questo dopoguerra», inizia questa ampia e diligente rassegna rendendo conto dei volumi pubblicati, fra ’78 e ’81, nell’edizione astese, per passare poi alla critica a cominciare da alcune ristampe. Anzitutto quella accresciuta del volume di Vittore Branca, Alfieri e la ricerca dello stile, Bologna, Zanichelli, 1981, accompagnata dalle edizioni rizzoliane del Filippo, dell’Agamennone, del Saul, della Mirra, e quella dei miei Saggi alfieriani, Roma, Editori Riuniti, 1981, a proposito dei quali (e della relativa premessa) viene affacciata «l’impressione che nella storia del rapporto intellettuale tra il Binni e il suo autore prediletto (insieme a Leopardi) il coefficiente di identificazione sia venuto progressivamente crescendo nel tempo» (come egli vede anche nel breve mio scritto Per Alfieri, in questa rivista, 1982, nonché nel profilo alfieriano in Settecento maggiore, Milano, Garzanti, 1978).

Fra le altre ristampe vengono segnalate quelle di alcuni studi alfieriani di Ezio Raimondi nel volume Il concerto interrotto, Pisa, Pacini, 1979, a cui si è aggiunto (in Aa.Vv., Scene e figure del teatro, Reggio Emilia, 1981) Le ombre del teatro alfieriano, «analisi figurale dei personaggi alfieriani», e quelli del ’52-59, sulla prosa della Vita e dei trattati politici, del compianto Gaetano Mariani nel volume La vita sospesa, Napoli, Liguori, 1978.

Fra gli studi nuovi il Santato segnala quelli di Marco Sterpos, Storia della Cleopatra. Itinerario alfieriano dal melodramma alla tragedia, Torino, Biblioteca di Studi piemontesi, 1980, che accompagna l’edizione astese della Cleopatra curata dallo Sterpos, il saggio in chiave psicoanalitica di Jacques Joly, L’univers du désir dans l’oeuvre d’Alfieri, nel volume Le désir et l’utopie. Études sur le théâtre d’Alfieri et de Goldoni, Clermont Ferrand, 1978; a cui si accompagna un utile studio su di un ignorato episodio di antialfierismo, Anti-Alfieri moraleggiante e patetico: Cosimo Giotti, in Aa.Vv., Letteratura e società, Palermo, Palumbo, I, 1980; un volumetto di Roberto Salsano sul Polinice, Roma, Bulzoni, 1979; un saggio di Mario Trovato, Il messaggio poetico dell’Alfieri: la natura del limite tragico, Roma, Ateneo, 1978, che cerca di spiegare la scelta del tema tragico della Mirra nel «senso di colpa» dell’Alfieri per il suo legame «non consacrato» con la d’Albany; un saggio di Carla Doni sull’utilità delle traduzioni dal latino per la formazione stilistica alfieriana, Vittorio Alfieri traduttore dei classici latini (Sallustio-Virgilio), Padova, Liviana, 1980; alcuni interventi di Clemente Mazzotta in preparazione del III volume degli Scritti politici e morali (Satire e Misogallo), mentre, sempre in campo filologico, si segnala il ritrovamento ad opera di Roberto Marchetti della redazione intermedia del Principe, della Tirannide, del Panegirico.

Infine si dà piú rapida notizia di un saggio di Giovanni Getto sulle dimensioni del tempo e dello spazio nella Vita alfieriana (in «Studi piemontesi», 1980), di quello sociologico di M. Augusta Martinelli, L’agiografia del vate, in «Lavoro critico», 1978; i saggi di Simona Costa (ora raccolti nel volume schedato in questa rivista), un saggio di Paola Azzolini sulla Mirra in chiave psicanalitica, La negazione simbolica nella Mirra alfieriana («Lettere italiane», 1980); un saggio di Angelo Fabrizi, Alfieri e l’estetica musicale settecentesca («Chigiana», 1976); due saggi dello stesso Santato (Stile e ideologia dell’Alfieri politico, in «Lettere italiane», 1978, e Il pensiero politico alfieriano e «L’Antidoto», in «Atti dell’Istituto veneto», 1978-79), l’acuto saggio di Arnaldo Di Benedetto, Alfieri e le passioni, in «Giornale Storico della letteratura italiana», 1981; un saggetto di Sandra Citroni Marchetti, Alfieri e la satira latina, in «Maia», 1979, e alcuni brevi scritti di C. Chiodo, N. Merola, C. Dionisotti, e pubblicazioni di inediti da parte di J. Lindon, A. Actis Caporale, D. Falossi, E. Barellai, P.M. Prosio, L. Ricaldone, T. O’Neill, A. Illiano, A.N. Marani, per finire con la segnalazione della biografia di L. Baccolo, Il signor Conte non riceve, Cuneo, L’Arciere, 1978 e di recenti rappresentazioni teatrali (Saul, Oreste, Divorzio).

«La Rassegna della letteratura italiana», a. 88°, serie VII, n. 1-2, Firenze, gennaio-agosto 1984

Vittorio Alfieri, Scritti politici e morali, III, a cura di Clemente Mazzotta, Asti, Casa di Alfieri, 1984, pp. CLI-522.

La davvero benemerita edizione alfieriana, da tempo attiva sotto la vigorosa presidenza di Luigi Firpo, offre alla fine dell’84 questo monumentale volume degli Scritti politici e morali che raccoglie testi essenziali alla formazione dell’Alfieri (Esquisse du Jugement universel e Lettres à un sansguignon) e testi fondamentali nella sua piena maturità creativa come Satire e Misogallo, di cui da tanto tempo si attendeva un vero testo critico, quale è certamente quello qui apprestato con tanta cura e acribia dal Mazzotta, il quale, nella vastissima introduzione, rende conto estremamente particolareggiato della situazione editoriale sinora esistente di questi testi, della storia della loro composizione, dei criteri di trascrizione, della funzione degli apparati e delle appendici (quella delle Satire, quella del Misogallo, che comprende Componimenti rifiutati o raccolti altrove, Elenchi delle copie, Intenzione dell’autore, Patti fra la Teresa Mocenni e Vittorio Alfieri). Esauriente e prezioso materiale (fra introduzione e testi) cui ancora concorrono utilmente una cronologia delle Satire e del Misogallo e, per le due opere, due analoghe concordanze del loro ordinamento.

Roberto Marchetti, Nuovi manoscritti alfieriani, in «Annali alfieriani», III, pp. 69-72.

Integro la schedatura del III numero degli «Annali alfieriani» da me fatta nel n. 1-2, 1984 della «Rassegna» reintroducendo la segnalazione del breve scritto del Marchetti (benemerito direttore della Casa di Alfieri di Asti) che era caduta nel giro delle bozze di quel numero. In quello scritto il M. annunciava, con un valido e copioso corpo di notizie e rettifiche, il suo ritrovamento della redazione intermedia, «vanamente cercata da Giuseppe Mazzatinti e da Pietro Cazzani», della Tirannide, del Principe e delle lettere e del Panegirico, individuata in un manoscritto conservato dalla famiglia Ferrero-Ventimiglia di Torino, discendente da Onorato Ferrero, che nel 1784 aveva sposato Eleonora Luisa, figlia della sorella dell’Alfieri. Cosí tale redazione, intermedia fra la prima stesura e il testo pubblicato, viene finalmente precisamente individuata e se ne descrive minutamente e utilmente la storia della trasmissione.

«La Rassegna della letteratura italiana», a. 89°, serie VII, n. 2-3, Firenze, maggio-dicembre 1985

Vittorio Alfieri, Traduzioni, a cura di Marziano Guglielminetti, Maria Rosa Masoero, Claudio Sensi, Volume IV, Teatro greco, a cura di Claudio Sensi, Asti, Casa di Alfieri, 1985, pp. CLVIII-348.

Con ritmo crescente la benemerita edizione astese delle opere dell’Alfieri procede nelle sue ben valide offerte di testi critici atti a coprire tutta l’imponente massa degli scritti alfieriani, anche di quelli meno valutati e studiati: come può essere il caso di questo volume quarto delle traduzioni, che offre il testo critico del «teatro greco» e cioè delle traduzioni alfieriane del Filottete di Sofocle, dei Persiani di Eschilo, delle Rane di Aristofane. Una puntuale e sicura nota (costituita di tre parti dedicate alle tre opere tradotte dall’Alfieri) di Claudio Sensi offre la descrizione dei manoscritti, i criteri per la costituzione del testo e l’apparato critico, con le tre relative appendici che raccolgono tutto il materiale preparatorio alfieriano, il quale oltretutto permette di calcolare il profondo lavoro che l’Alfieri fece in questa sua tarda presa di possesso del greco e di traduzione di testi significativi per le sue scelte negli anni tardi. L’apparato critico registra, a piè di pagina del testo, le singole varianti verso per verso.

Vittorio Alfieri, Tragedie postume, Volume III, Alceste prima, a cura di Clara Domenici, Alceste seconda, a cura di Raffaele De Bello, Asti, Casa di Alfieri, 1985, pp. 534.

Il presente volume, davvero importante ai fini di una nuova presa in esame della traduzione poetica dell’Alceste euripidea e dell’Alceste seconda entro prospettive e caratteri degli ultimi anni alfieriani, offre finalmente una sicura edizione critica delle due tragedie che si raccomanda anche per la presenza di appendici documentarie, per la presentazione del testo greco usato dall’Alfieri e della sua traduzione latina e per le due introduzioni della Domenici (I «preposteri trastulli» di Vittorio Alfieri) e del De Bello che, mentre giustificano i criteri da loro seguiti per la edizione critica, portano notizie, precisazioni cronologiche e stimoli alla lettura critica.

«La Rassegna della letteratura italiana», a. 90°, serie VII, n. 1-2, Firenze, gennaio-agosto 1986

Vittorio Alfieri, Mirra, a cura di Guido Davico Bonino, Torino, Einaudi, 1988, pp. IX-92.

Arricchita soprattutto da note che puntano a precisare luoghi della evoluzione costruttiva di questa grandissima tragedia riportando passi della Idea, Stesura, Prima versificazione, che poi vengono in parte presentate anche nella utile appendice di documenti (lettere, brani della Vita, l’episodio della Mirra ovidiana, dato in traduzione italiana, il Parere, il noto passo dei Miei ricordi del D’Azeglio sulla lettura da parte dell’Alfieri della Mirra ai parenti dello scrittore risorgimentale), questa edizione della Mirra (per me il capolavoro assoluto di Alfieri e lo affermai nella mia lettura in epoca in cui la tragedia veniva anche snobbata entro un giudizio paradossale del grande Alfieri: «un caso di ossianismo piemontese», cosí come scrisse il Muscetta) viene presentata dal Davico Bonino con una nota introduttiva di quattro pagine interamente interpretante la Mirra in chiave di dura psicanalisi: «L’incesto in lei non è altro, a livello simbolico, che l’appagamento sostitutivo di un non-amore a livello reale. Forse anche per questo in Alfieri (che qualcosa doveva saperne di non-amore, in margine a quella grande Assente che fu per lui, tutta la vita, maman Monica Maillard de Tournon) l’incesto è confessato, ma non consumato». Certo io stesso insistei sul «preconscio» nel personaggio di Mirra (ciò che colpí Michel David), ma, a questo punto di saturazione psicanalitica insopportabile, sarebbe proprio il caso di lasciar perdere la psicanalisi come privilegiata e addirittura unica e totale chiave critica per l’interpretazione delle opere d’arte.

«La Rassegna della letteratura italiana», a. 92°, serie VII, n. 2-3, Firenze, maggio-dicembre 1988

Vittorio Alfieri, Epistolario, vol. III, a c. di Lanfranco Caretti, Casa di Alfieri, Asti, 1989, pp. XI-274.

Con questo terzo volume si conclude la pubblicazione dell’epistolario alfieriano, tutta dovuta alle cure, all’acribia filologica, agli studi e ricerche di Lanfranco Caretti, vero benemerito degli studi alfieriani in quanto fornitore di testi (in parte nuovamente da lui scoperti) e di notizie meticolosamente accertate, essenziali insieme per lo studio delle vicende biografiche dell’Alfieri, dello sviluppo ultimo della sua cultura e ideologia, e per quello del suo stile negli anni estremi della sua attività e della sua vita: gli anni 1799-1803 in cui, specie nel rapporto intenso e confidenziale con il Caluso, l’Alfieri esprime in modi piú pacati ed intimi (anche se non privi di punte irte, specie nella considerazione dell’epoca e degli odiati francesi) la sua visione della vita, i suoi affetti fondamentali, l’alto culto della poesia. È doveroso in rapporto alla avanzata fase di completamento della edizione nazionale delle opere del grandissimo Alfieri ricordare qui, con profondo rammarico, la scomparsa del presidente del comitato alfieriano, Luigi Firpo, valente e infaticabile studioso di indubbia statura.

«La Rassegna della letteratura italiana», a. 93°, serie VII, n. 3, Firenze, settembre-dicembre 1989